Luigi Bernardi, Erano angeli
Il primo libro di racconti di un grande scopritore di talenti
Questo piccolo ma denso libretto contiene sette racconti ambientati nel quotidiano delle grandi città, dove storie di vita apparentemente normali (lo smarrimento di una bambina, una pulizia dentale, una zingara col figlio che chiede l'elemosina) si colorano di tinte fosche, una volta bagnate nel torrente nero delle umane debolezze. Il quotidiano che si fa piccola tragedia ma con la delicatezza espressiva ed emotiva di uno scrittore attento ai sentimenti e alle sfumature affettive dei propri personaggi..
Luigi Bernardi (Ozzano dell'Emilia, 1953 - Bologna, 2013) ha diretto case editrici (L'isola Trovata, Glènat Italia, Granata Press), riviste, collane di libri. Ha scoperto e valorizzato decine di fumettisti e di scrittori italiani (fra gli altri Silver, Panebarco, Giardino, Magnus, Lucarelli, Fois, Vallorani, Cacucci, Della Mea, Ferrandino, ecc.), imponendoli sul mercato europeo. Ha tradotto e pubblicato grandi autori internazionali (Taibo II, Manchette, Daeninckx, Malet, Jonquet, Martin). Ha scritto articoli e saggi. Ha curato mostre. Come narratore ha debuttato con questo libro e, contemporaneamente, con La foresta dei coccodrilli (Castelvecchi). Wikipedia gli dedica una pagina.
Il fiato della biscia
Alla fine hai contato i soldi. Una banconota da cinquanta, tre da dieci, una da cinque, due da due, tre da mille. Novantaduemilalire. Niente male, hai pensato stringendo delicatamente tra le dita il piccolo naso di Fatima, scuotendolo per il gioco della campana. Lei ha spalancato gli occhioni scuri e ti ha sorriso. Anche oggi tua madre ha trovato il modo per farti mangiare e per mangiare, le hai detto. Lei ha continuato a sorridere fra i rintocchi simulati dalla tua voce melodiosa. Hai adocchiato l'uomo attraverso la vetrina del bar. Era in piedi davanti alla cassa. Ha chiesto qualcosa, ha estratto una mazzetta di banconote dalla tasca dei pantaloni. Ne ha contate due o tre, le ha allungate alla cassiera. Ha preso lo scontrino, non lo ha neppure guardato, si è rimesso il resto delle banconote in tasca. Con una mano ha sollevato il coperchio del vassoio e con l'altra ha preso una pasta, ha borbottato qualcosa al barista, che si è messo a preparargli un caffè. Mentre l'uomo mangiava con larghe boccate, il barista ha appoggiato sul banco una tazzina piccola. L'uomo non ha messo lo zucchero, ha bevuto il caffè tutto d'un sorso. Ha preso una salviettina, si è pulito la bocca. Poi con un dito si è spazzolato ai lati delle labbra, dove rimane sempre qualche briciola. Ha gettato la salvietta dentro il cestino e ha fatto per uscire dal locale. Nessuno ti ha visto mentre ti sei sbottonata la camicetta larga, liberando il seno destro. Fatima te la sei appesa al collo, sorretta da una elementare imbracatura fatta di fazzoletti multicolore annodati fra di loro. Adesso hai la mammella che ballonzola libera e, sulla punta, un capezzolo livido, eroso, ormai insensibile. Da mesi il tuo seno non produce più latte, da mesi tua figlia vi si attacca sperando di succhiare qualcosa più di quelle poche gocce di siero acidulo che sei capace di darle, da mesi quel capezzolo è diventato poco più di un succhiotto di gomma, capace giusto di stimolare la salivazione della bambina. Da mesi il tuo seno la lusinga di speranze.
Fatima non aspetta neppure che tu sollevi la tua irrisoria mammella, grinzosa come una pera asciugata del proprio liquido. Non aspetta che il capezzolo si trovi all'altezza delle sue piccole labbra, se lo va a cercare più giù, sotto l'osceno cedimento della tua carne. Lo trova, lo afferra con le labbra, lo stringe con le gengive, una morsa così forte che dovresti urlare per il dolore. Ma non senti niente, il tuo corpo ha smesso da tempo di mandarti dei segnali.
Quando lo faceva, tu non gli rispondevi, e così ora non lo fa più. Ti sei guardata le mani. Sporche di tutto. Vi hai sputato sopra una, due, tre volte, e poi le hai fregate vigorosamente fra loro. Le hai portate al naso, hai inspirato rabbiosamente. Odore di fango, un po' acido, odore di vecchio, di chiuso, di paura, di buio. Odore di schifo.
È un odore che gli uomini non riescono a tollerare, ti diceva sempre la nonna, perché fa loro venire in mente il fango, la palude. La melma, dove si perde ogni certezza, dove si affonda senza capire se si troverà un appoggio solido, oppure si sarà inghiottiti per l'eternità. La melma dove solo le bisce vivono in armonia, perché le bisce non affondano. E tu, se vuoi sopravvivere, dovrai diventare una biscia, agile come una biscia, puzzolente come una biscia, imprendibile come una biscia. Ti affascinava quel concerto di parole della nonna, ti incantava fino a perderti, lo ascoltavi muovendo la testa e il tronco, come quando si sente una musica dolce. Allora non sapevi che di lì a poco ti saresti davvero trasformata in una biscia. E adesso, mentre sputi ancora sulle tue mani e te le passi velocemente sulla faccia, ammorbidendo lo strato di sporco per farlo trasudare, lo stai diventando di nuovo. Una biscia. Puzzolente e minacciosa. L'uomo ti ha visto mentre ti avventavi su di lui. Ha fatto una smorfia cattiva. Ti ha odiato perché non sopporta le intrusioni. E poi perché hai i piedi nudi, macchiati come un letamaio. E perché hai i vestiti laceri, smunti, che hanno perduto i colori della vita. E perché stai allattando un bambino sporco con i seni sporchi. E perché puzzi di una puzza insopportabile. E perché hai cominciato a sbaciucchiarti le dita e ora cerchi di toccarlo. [...]