uesto romanzo è la storia di un pentimento: il signor Bianco, insegnante in pensione, un uomo tranquillo che vive nella certezza di non aver mai fatto del male a nessuno, scivola improvvisamente in un incubo persecutorio: chi gli augura la morte? Chi lo minaccia dalle vetrine dei negozi? Chi gli manda lettere minatorie? Chi scrive ingiurie sul muro di casa sua? Dal passato del signor Bianco riemerge la figura di un bambino, Jean Petofì, un compagno di scuola di origine ungherese sottoposto alle violenze psicologiche e fisiche di due capobranco, sostenuti dall’intera classe, vigliaccamente succube. Miserie dell’infanzia che tornano a perseguitare il protagonista a distanza di decenni. Riuscirà il signor Bianco a farsi perdonare e a perdonarsi?
Gilles Ascaride torna in libreria con un romanzo grottesco e inquietante, che affronta il tema sempre attuale del bullismo e la critica quasi metafisica dello spirito di prevaricazione che è in ognuno di noi, anche nell’uomo all’apparenza più inoffensivo.
Traduzione di Elena Battista.
Gilles Ascaride è nato a Marsiglia nel 1947. Laureato in sociologia, lavora come ricercatore all’università della Provenza. Ha scritto e pubblicato una decina di romanzi, sollevando una certa attenzione in Francia. Ha scritto testi teatrali che sono andati in scena sia in Francia che in Belgio. Da Amori moderni è tratta una pièce teatrale che il Théâtre du Millénaire ha rappresentato con grande successo al festival Off di Avignone nel luglio del 2005.
Così la stampa francese
«Il romanzo di Gilles Ascaride è di una bellezza nera, pieno di lacrime. Non manca niente all’arsenale narrativo di questo scrittore, progettista di personaggi indimenticabili. Il suo non è soltanto un capolavoro di equilibrio narrativo, ma anche un potente noir etico di una terapeutica lucidità» (La Marseillaise)
«Intrigante e malinconico, riesce sempre a farci ridere, pieno com’è di un umorismo caustico e devastante» (Télérama)
«Ascaride riesce nell’alchimia di mescolare la risata e il pianto, il dramma e la commedia» (La Provence)
Come inizia
La cosa più fastidiosa delle emorroidi è che è impossibile dimenticarsene del tutto. Sono delle compagne esigenti. Fanno male, bruciano, prudono, tirano. E anche quando sembra di non sentirle, le senti lo stesso. E poi sono umilianti. A me, che sono un tipo molto suscettibile, non piacciono per niente. I dottori mi fanno ridere: o ti dicono «Non è niente di grave» oppure «Bisogna trattarle con disprezzo». Be’, disprezzare il proprio culo non è mica facile, non ci riesce nessuno. E com’è che allora danno risposte che si chiamano Danflon 500, Cirkan, Ginko Biloba, Proctolin o Preparazione H? Le emorroidi danno da vivere alla gente, creano posti di lavoro, come si può trattarle con disprezzo? Io quindi non le disprezzo, però non mi piacciono e non mi piace curarle. Non mi piace che s’impadroniscano dei miei pensieri e da tanti anni mi costringano a rifletterci sopra. Sono più di dieci che il dottor Duluc, il mio gastroenterologo, ha emesso il suo verdetto, banale per lui ma tragico per me: «Signor Bianco, bisogna pensare a una legatura e poi alla crioterapia. È una cosa che si fa in ambulatorio, senza problemi, un’operazione molto semplice e lei si libera». In ambulatorio? Cosa vuoi che sia!, gli ho risposto. Ma i medici non hanno il senso dell’umorismo, infatti il dottor Duluc non ha neanche sorriso. Io invece sì, almeno quello. Un giorno mi ha trovato piegato in due in sala d’attesa. Piegato in due dal ridere, per fortuna. Il paziente prima di me, un signore molto più avanti con gli anni con il quale stavo scambiando due chiacchiere, aveva fatto questa riflessione: «Ma lei ha notato che il dottor Duluc non riconosce mai i suoi pazienti quando entrano? Quando però gli mostrano il posteriore lui esclama “Allora come va, signor Pinco Pallino?” A modo suo è fisionomista. Pare che saluti così mezzo quartiere, di schiena, diciamo». Il signore malizioso mi aveva fatto l’occhiolino e si era infilato nel “gabinetto” del dottore, e quando era venuto il mio turno ridevo ancora. Ma le legature e la crioterapia non fanno ridere neanche un po’. Ne ho viste, di vittime di questa soluzione finale, torcersi dal dolore senza il coraggio di rivelare la fonte dei loro tormenti per paura di provocare un’ilarità in- controllabile. Perché, come se non bastasse, le emorroidi fanno ridere. Quindi il povero martire tace. A parte in un caso, è vero. Il signor Imparato, il mio vicino del piano di sotto, uomo dalla prosa alata e immaginifica e ciononostante anch’egli defunto, per suscitare la mia compassione mi aveva confessato senza falsi pudori l’intervento appena subito. «Signor Bianco» aveva concluso, «ho il culo come una lattina di pelati». Andateci voi, a farvi operare, dopo una cosa così! Mi sono tenuto le mie sgradevoli compagne. Ma il buon Duluc ci torna su spesso. Peggio per lui. E peggio anche per me. Mi arrangio. Insomma, così credo. Perché a volte mi vengono dei dubbi atroci. So bene che è una cretinata, ma forse neanche tanto. Le tormentose sputatrici di sangue avranno contribuito all’allontanamento di Catherine? Lei si arrabbiava tanto per le mie lamentele! Ancora! Mi sfondi con le tue emorroidi! Ed era proprio così, mi sfondavo dalle mie stesse fondamenta. E lei crollava. Mi diceva che dovevo far finta di niente, di scordarmele. Ma, l’ho già detto, è impossibile, nessuno può fare una cosa simile. E comunque, io non ci riesco di sicuro. Glielo dicevo, ma insomma, Catherine, non posso! Lei gonfiava le guance, soffiava, a volte rideva, anche lei. Ne avevo sempre una! Le emorroidi, bisogno di pisciare, mal di pancia, mal di cuore, prurito agli occhi. Quello poi per lei era il colmo. Ma insomma, a nessuno prudono gli occhi! Be’, a me sì invece, e come si fa a grattarsi gli occhi? C’è un sacco di gente che va a finire che muore, per degli acciacchi sciocchi e irritanti, e Catherine s’infastidiva. Credo che avrebbe preferito fossi malato di cancro, di leucemia, di cuore o di sclerosi a placche. Forse in quel caso si sarebbe tramutata in angelo della misericordia, infermiera al fronte, e mi avrebbe considerato come un grande combattente. Forse a quest’ora sarebbe ancora qui a curarmi devota. Non che Catherine fosse un ricettacolo di qualità, anche se di qualità ne aveva molte, però non era né cattiva né crudele. Quindi c’è da credere che io l’abbia esasperata, con il mio raspare. Certamente è così. Però non è modo. Non si lascia un uomo, con il quale si sono passati venticinque anni, per dei piccoli fastidi come questi. No, non si fa. Penso a tutto ciò grattandomi il didietro e mi rendo conto che devo avere proprio l’aria di un deficiente. Ma dato che non mi vede nessuno… [...]