La copertina del numero 59 Domitilla Di Thiene, Sostituzione





Si è scordata il latte. Le succede spesso in questi giorni. Forse perché lei non ne ha mai bevuto; ricorda vagamente di aver smesso, con grande sollievo visto che non le piaceva, verso i dodici anni, all’inizio delle medie. Sua madre si era convinta che non ce ne fosse più bisogno e che quindi non era più il caso di costringerla ogni mattina. D’altronde anche i suoi genitori non lo bevevano. Da quando vivono insieme, lei e suo marito hanno sempre bevuto tè, a colazione, piccoli riti comuni che li hanno avvicinati fin dai primi tempi di convivenza. Le torte poi, o qualsiasi altra ricetta che contenga il latte, non ha mai avuto tempo di farle. Cenano di solito con una pizza surgelata, o un kebab comprato dal libanese all’angolo. Ora però sta cercando di svezzare suo figlio, Arturo, sei mesi appena. Con il consenso del pediatra cerca di sostituire le poppate con il biberon. Non è facile perché il figlio mostra di gradire molto di più la fonte naturale, il contatto diretto con la madre. E non è facile perché lei continua a scordarsi di comprarlo. Si sente addosso una febbretta tenace che le dura da qualche giorno. Il marito è fuori, lo è spesso, per lavoro. La madre, che in questi giorni la sta aiutando a tenere il piccolo e a fare i mille lavori di casa (la casa sembra espansa da quando è nato Arturo, così come i panni da lavare, da stirare, anche i piatti e i pannolini da comprare e l’immondizia da buttare) se ne è andata da poco, lasciandola con il piccolo Arturo, finalmente addormentato. Si sporge dalla finestra per guardare fuori. Piove ancora, non tanto ma da tanto, e la strada è fradicia. Guarda Arturo. Dovrebbe svegliarlo, vestirlo pesante, prendere l’ombrello e qualche spiccio, infilare il passeggino nell’ascensore e scendere al bar ancora aperto a comprare il latte. Quasi sentisse i suoi pensieri Arturo fa dei piccoli movimenti e si muove nel lettino come se stesse per svegliarsi. Lei rimane immobile, trattenendo il respiro (se si sveglia ora, se si sveglia ora è un casino, non potrò andare a far pipì e a farmi un panino, o a fumare una sigaretta sporta fuori dal davanzale per non fare entrar il fumo), il piccolo fa qualche movimento ancora e poi si risistema buono, tirando forte con il naso. Lei rimane lì a fissarlo, a godere lo scampato pericolo. Ha il raffreddore da qualche giorno, il pediatra ha detto che non è nulla di grave e che devono abituarcisi con l’arrivo dell’inverno, ma sono un po’ di notti che dorme peggio, e si sveglia spesso e di malumore, piangendo. Per il resto è un bambino molto buono, allegro, le fa dei sorrisi che rischiarano il mondo e lui inizia a conoscerlo, il mondo, piano piano e a modo suo. Si sdraia sul letto accanto al lettino, tra le lenzuola sfatte, per decidere cosa fare. Nel pomeriggio sua madre è venuta per darle modo di far qualcosa, deve lavorare ed è indietro su tutte le consegne. È talmente stanca però che si è messa nella stanza da letto, la casa è piccola ed è il solo modo per isolarsi un po’, con il computer e tutto, sul letto; ma l’unica cosa che è riuscita a fare è stata tentare di appisolarsi. Non è facile perché sente Arturo e la madre che giocano, nella stanza accanto, e ha fitte di sensi di colpa ogni volta che lo sente piangere o lamentarsi. E poi la madre la sa intenta al lavoro, si vergogna per quella stanchezza cronica in cui si sente. Abbiamo cresciuto tutti dei figli, le ha detto, solo lei lo trova così faticoso. Si è stesa sul letto vestita, rigida, imponendosi di dormire per recuperare, ma si agita a ogni movimento che viene dall’altra stanza (e se entra adesso cosa le dico? che sto lavorando?) ed è riuscita solo ad innervosirsi di più. Il marito sarebbe tornato giovedì, ed è solo martedì. Sono parecchie settimane che è fuori dal lunedì al giovedì. Il lunedì poi parte all’alba, tanto che lei considera che non ci sia già dalla domenica. Nel fine settimana però è molto presente con il figlio, fa in modo di recuperare e permette anche a lei di mettersi in pari con il lavoro. L’ovvio inconveniente è che si incontrano poco anche i giorni in cui c’è. Quando l’ha chiamata, la sera prima, si è seccato nel sentirle dire che la sua figura sta sbiadendo, che le manca ma le sembra di non ricordare chi sia. È solo un giorno che non c’è, gli sembra esageri. Lei non insiste, non lo vuole irritare o dispiacere, ma è così. Le capita di aggirarsi per casa, di guardare le sue cose, le loro cose, e di sentirle estranee. Le succede di girare per le camere, poche per la verità, e di chiedersi chi le viva, chi abbia scelto le mattonelle verdi del bagno. Cerca di ricostruire continuamente la loro storia, i loro primi incontri, per non cadere in quella trappola. Ma le sembra tutto lontano, distante, come se i ricordi fossero avvolti da una nebbia fitta, che circonda tutto.
Si addormenta, stavolta, completamente vestita, in un continuo dormiveglia scandito dalle poppate per Arturo. La mattina scopre anche di essersi alzata per cambiarlo, ma solo i vestiti sporchi nel bidet glielo testimoniano, deve averlo fatto in una condizione di automatismo, durante il sonno. Con la luce del sole la casa le sembra diversa. Anche Arturo è di buon umore, gongola vedendo il seno e si lascia andare a una poppata di puro piacere. Devono andare al nido, è una mezz’ora a piedi ma la giornata sembra chiara, deve aver smesso di piovere durante la notte. Per la strada ci sono già molte persone, e incontra vari passeggini di donne nella sua stessa condizione. Si è abituata ai sorrisi tra sconosciuti, agli sguardi valutativi dei rispettivi bambini. Arriva alla scuola con una sensazione piacevole. Sta facendo l’inserimento, può rimanere senza far niente a guardare un gruppo di bambini più o meno dell’età di Arturo. Quelli della stanza accanto già camminano, e ogni tanto invadono lo spazio facendo gorgheggi tutti loro. Le educatrici sono brave e attente, sembrano star lì per piacere e non per lavoro. Oggi è il giorno in cui deve iniziare quello che loro definiscono distacco. Dopo una prima settimana che è rimasta nella stanza insieme ad Arturo e agli altri bambini deve provare per la prima volta a uscire solo per un quarto d’ora. Le hanno detto che quando sono così piccoli non è difficile, che i bambini si abituano presto. Arturo è impegnatissimo a guardare degli uccellini di cartapesta che fanno rumore quando l’operatrice li muove. Sorride e fa piccoli versi ogni volta che stropiccia un’ala. Le fanno cenno che è il momento, deve salutarlo e uscire. Soprattutto rimanere serena. Arturo la guarda sospettoso mentre gli dà un bacio sulla guancia e gli dice frasi di convenienza. La voce le esce strana, non riesce a essere naturale pensando che non può capirla, che capisce solo gli abbracci e la presenza e il tatto. Si richiude la porta alle spalle mentre sente un urlaccio di dolore del figlio. Da poco ha imparato a modulare il pianto, rabbia e tristezza, dolore o semplice disappunto. Questo era un misto di rabbia e dolore. Le hanno detto che deve aspettare, che a volte si lamentano all’inizio ma poi riescono a consolarsi. Le hanno anche detto che se il rapporto tra i due, madre e figlio, è buono, si dovrebbe riuscire a consolare, e che altrimenti, se continua a piangere, la verranno a chiamare. Dovrebbe andare in una sala d’aspetto, dopo un corridoio, ad aspettare l’esito. Preferisce invece uscire all’aria aperta, continua a stare di fronte all’aula, che ha le vetrate che danno sul fuori. Si accende una sigaretta. Non arrivano rumori da dentro. Non capisce se è perché non ce ne sono o se i vetri sono troppo spessi. Fuma avidamente la prima sigaretta della giornata. Vorrebbe sporgersi a guardare dentro dalle vetrate ma sa che c’è il rischio che Arturo la veda, prima degli altri. Anzi pensa che sicuramente Arturo la vedrebbe prima degli altri. Le hanno detto di rientrare dopo quindici minuti, ma non ha un orologio. Inizia a contare, cercando di imporsi di andare piano. Le viene in mente che quando era piccola e giocava a tana libera tutti le imponevano di contare il doppio degli altri, perché andava sempre troppo veloce. Fa così, conta centoventi secondi ogni minuto. Si distrae quando arriva un gatto. Lo accarezza e inizia daccapo, pensando di guadagnare ancora tempo. Quando finalmente si decide a rientrare sente Arturo che piange forte e l’operatrice che le chiede ma dov’era finita, sono venuti a cercarla ma non l’hanno trovata. Arturo ha la faccia gonfia di pianto, a macchie (è come me, quando piange si riempie di chiazze rosse, si dovrà vergognare tutta la vita di aver pianto). Lo abbraccia ma non riesce a calmarlo del tutto. L’operatrice più anziana, l’unica che porta il grembiule blu, che sembra una vecchia bidella di una scuola privata, dice, ma guarda, non riesce a smettere di piangere neanche con la mamma. Continua ad abbracciarlo e cammina per la stanza, cercando intanto la giacca e la sciarpa, sua e del figlio. Le hanno detto che possono andare, che per oggi va bene così e che domani ritenteranno per un tempo maggiore. Arturo ha il muco che cola dal naso e lei non riesce a trovare i calzini pesanti per portarlo fuori.
Sul passeggino il bambino si assopisce, e lei sta pensando se è il caso di continuare, a provare con il nido (in fondo se non lavoro e rimango con lui, ancora per un po’, Carlo guadagna abbastanza, certo, dovrebbe continuare a stare fuori quattro cinque giorni a settimana). Le amiche non hanno figli, è stata la prima nella piccola cerchia dei suoi conoscenti; forse perché ha un marito molto più grande, e anche le condizioni economiche lo hanno permesso. I suoi coetanei sono tutti in piena precarietà, come lei d’altronde. E lavorano molto per tentare di uscire, da questa precarietà, anche se nessuno gli ha assicurato che ci sia un rapporto diretto, tra il lavorare molto e la definizione dei contratti. Alcune le dicono che è fortunata, a poter stare con Arturo, a non dover pensare ad altro. E anche lei a volte si sente così.
Il dubbio se sia il caso o meno di continuare con il nido le viene di continuo, e cambia idea ogni volta che sente opinione diverse (ma che sei matta, così piccolo? oppure: i bimbi devono stare tra loro, vedrai che è molto meglio così che non con una baby sitter, e ancora mille altre opinioni) ma soprattutto a seconda di come Arturo reagisce di giorno in giorno. A volte scoppia a piangere appena lei esce dalla stanza, una mattina addirittura inizia da prima, quando ancora sono sulla salita che porta alla scuola. In questi giorni si sente a disagio, arrabbiata, oscilla fra la vergogna e il senso di colpa. Le maestre cercano di essere incoraggianti, la rassicurano, ma calcano sempre sul punto per loro fondamentale, il bambino non è tranquillo se la mamma non è tranquilla. Altri giorni invece va meglio, Arturo sembra più sereno, non piange o piange poco e sorride quando rientra in classe. In questi giorni inizia ad assaporare l’idea di lasciarlo fino a mezzogiorno, tutte le mattine. Di avere fino a mezzogiorno, cinque giorni a settimana, uno spazio tutto per lei. Fantastica su come sfruttarlo, il lavoro, certo, ma anche quello piccole cose che ormai sembrano essere diventate un lusso, andare a farsi la ceretta, iscriversi a nuoto, o solo leggere un libro. Non ha fatto i conti però con l’influenza, Arturo si prende la febbre, un 39 fisso che scende solo con il paracetamolo, e che sfianca tutti e due. Dopo una settimana a casa deve iniziare tutto da capo.
C’è un gatto nel giardino dell’asilo nido. Un tigrato grigio che miagola quando passano e si strofina contro il passeggino. Arturo ne è incantato quando lo vede, ride felice e sporge la mano per cercare di accarezzarlo. Lei ne è felice. Avevano un gatto a casa prima che rimanesse incinta, il suo gatto, detto topo anche se tutti ridevano per il nome. Lo aveva trovato in un cassonetto e se l’era portato dietro dalla casa in cui viveva con i genitori. Il marito non amava particolarmente i gatti, ma i due si erano sempre ignorati, senza grandi danni per nessuno, il loro rapporto era sempre stato esclusivo. Incinta aveva dovuto fare delle analisi ed era risultato che non aveva avuto la toxoplasmosi, una malattia che trasmettono i gatti e che può essere dannosa per il feto, le aveva detto il ginecologo. Il rischio era minimo, ma il marito non aveva voluto sentir ragioni (tra l’altro l’infezione si passava per lo più attraverso gli escrementi del gatto, e la cassetta fino a quel momento l’aveva sempre cambiata lei) così lo avevano portato da sua madre che aveva il terrazzo e altri due gatti. Ne aveva sofferto un po’, ma era sicura di riprenderselo non appena fosse nato Arturo. Invece il marito si era fatto forte dell’assenza protratta, lui non sopportava gli animali in casa, diceva (ma la sua impressione era che non avesse una gran passione neanche per quelli fuori, a dire il vero), e quando erano andati a trovarlo per riportarlo a casa il gatto non si era mostrato molto socievole.
«Fanno sempre così i gatti, non sono come i cani, non fanno le feste, e se soffrono diventano rancorosi e fingono di non conoscerti, o forse non ti riconoscono sul serio, almeno per un po’». «Ma non dire sciocchezze, psicologia felina, lo vedi o no che sta meglio qui con gli altri gatti e con il terrazzo, sei egoista se lo vuoi richiudere in casa da solo».
Era scoppiata a piangere come una bambina e aveva cercato di prenderlo in braccio goffamente; il micio aveva tirato fuori le unghie e la cosa aveva convinto definitivamente il marito. In quei primi giorni dopo il parto poi piangeva molto spesso e tutti le dicevano che erano gli ormoni e davano poco peso alla cosa.
Vedere ora Arturo che giocava con quest’altro gatto le faceva sperare di poterlo riprendere più avanti, di imporsi per una volta, non appena si fosse sentita un po’ più tranquilla. L’inserimento al nido stava diventando sempre più intermittente. Ogni volta che riusciva a portarcelo per due, tre giorni, ogni volta che iniziava a sperarci sul serio, Arturo si prendeva la febbre, e comunque aveva un raffreddore e una tosse cronici, che non riuscivano a fargli passare. Il pediatra diceva che era normale, il primo inverno, il contatto con gli altri bimbi al nido, nulla che dovesse preoccuparli. Le giornate però diventavano sempre più lunghe, chiusi in casa, senza poter uscire, e le notti costellate di risvegli continui, lunghe passeggiate per il corridoio, lei con il bimbo in braccio, che si svegliava non appena provava a rimetterlo nel lettino. Aveva spostato il letto contro il muro, cosicché quando non c’era Carlo poteva ugualmente tenerlo a letto con sé, senza paura che rotolasse giù (gli era successo, gli era successo quando proprio non ci pensava potesse ancora succedere, che Arturo si riuscisse a muovere così tanto, e invece doveva essere strisciato fino al bordo e caduto giù. L’aveva svegliato un urlo acuto, in mezzo alla notte; per fortuna non si era fatto nulla, ma ogni volta che ci ripensava le venivano i brividi). A letto con lei il bambino si tranquillizzava, le metteva una mano in bocca e si addormentavano così, lui che respirava male e lei con la gola secca attenta a non morderlo. La madre viene un giorno sì e un giorno no; a volte si sorprende a spiarne l’arrivo dalla finestra. Arturo con lei sta bene, addirittura le sembra più calmo quando c’è, più sereno. Alcuni pianti disperati ha l’impressione che le siano riservati, del tutto. I giorni migliori però sono quando torna il marito. Tutto allora diventa improvvisamente facile, bello, a lui non pesa stare con il bambino, anche per tempi lunghi, non è in perenne lotta per ritagliarsi del tempo suo (lei sdraiata sul divano che inizia per la centesima volta la stessa riga di un libro, tenacemente, mentre Arturo richiama di continuo la sua attenzione, finché non scoppia a piangere), no, questo glielo deve riconoscere, il marito quando sta con Arturo fa solo questo, ne è completamente assorbito, gli dedica tutta la sua attenzione. È molto bravo, riesce a essere leggero, divertente e divertito. I due giorni del fine settimana vede tutto in una prospettiva differente, solare, si chiede come mai le stesse cose riescano a diventare così faticose, quando è sola. Se per il marito non è così, a volte le viene il dubbio che abbia a che fare con il tipo di persona che è sempre stata; sempre tendente alla fuga, poco paziente, incapace di vivere appieno qualsiasi situazione. Sempre con un piede dentro e uno fuori, insomma. Anche adesso, quando con il marito discutono del suo futuro lavorativo, si rende conto che ha studiato tanto, si è data da fare e il fatto che non abbia ancora trovato un lavoro qualcosa vorrà pure dire. Il marito la sprona, le chiede continuamente se ha inviato curricula o parlato con qualcuno, e lei si sente pigra, come se in fondo non riuscisse a desiderare del tutto qualcosa, fino in fondo. I mille dubbi su Arturo, su loro due, si sente bloccata e non capisce perché, e non riesce a spiegarglielo.
E poi il lunedì si ricomincia daccapo, le sveglie notturne, l’uscita quando ancora c’è poca luce per il nido, o le mattinate a trascinarsi in casa con il sonno addosso quando Arturo ha la febbre. Le incombenze quotidiane, tipo andare al supermercato o dal fruttivendolo a comprare le verdure, diventano eventi sociali, in cui si vergogna del suo aspetto trasandato, le macchie di pappa raggrumata sui maglioni o i capelli non più lavati tutti i giorni; ma le fa bene scambiare due parole con la cassiera, o con la fruttivendola; prima sfuggiva come la peste situazioni simili, una forma di socievolezza da massaia che le sembrava ributtante.
«Come sta il piccolo Arturo?» Le chiede la fruttivendola mentre le dà le arance.
«Ha ancora qualche linea di febbre stamattina».
«Signo’, è la stagione, i miei due tutti i primi tre anni a casa, ci siamo fatti, d’inverno». E viene a sapere che la fruttivendola ha due gemelli maschi (forse li ha intravisti quando vengono a trovarla, due ragazzoni di trent’anni ormai, uno fa il dentista) (due? ma come si fa con due gemelli? è tutto raddoppiato o si assimilano e sembra uno? Però almeno sono già due, basta parti, basta gravidanze, puoi pensare che è tutto per l’ultima volta) e che ogni madre ha aneddoti sul primo anno. Persino la cassiera transessuale del supermercato è empatica, ha fratelli molto più piccoli e le consiglia rimedi brasiliani (è sudamericana, non se ne era mai accorta) contro il male ai denti. Vive come piccole boccate d’aria questi incontri e si sente in colpa per il vago malessere che prova ogni volta che rientra in casa.
Un lunedì si rompe la caldaia. Non sarebbe grave, è già successo altre volte, ma d’inverno e con Arturo piccolo diventa tutto più complicato. Deve scaldare l’acqua nelle pentole, e farsi dare dalla madre delle piccole stufe elettriche. In casa fa improvvisamente freddo dopo mesi di riscaldamento al massimo, cerca di coprire Arturo il più possibile. Chiama l’assistenza tecnica che le assicura che vengono, se non l’indomani il giorno dopo ancora.
«Ma come dopodomani, ho un figlio piccolo, non potreste…»
«Faremo tutto il possibile signora non si preoccupi». L’interrompe la donna dall’altro capo della linea, che si è fatta ripetere per la terza volta l’indirizzo esatto.
Il giorno dopo non sono venuti, ad Arturo, vuoi per il caso, vuoi per il freddo, si è alzata la febbre di nuovo. La madre insiste perché richiami; lo fa, ma le assicurano che per il giorno dopo o quello dopo ancora verranno di sicuro.
«Ma come quello dopo ancora…»
La madre le offre di andare da lei, per qualche giorno, ma preferisce di no. Non sa neanche lei perché, in fondo sarebbe la soluzione migliore, ma non se la sente di rientrare in quella casa con Arturo, suo padre è morto l’anno prima e le fa ancora impressione, la casa senza di lui.
Il marito per telefono sdrammatizza, chissà che un po’ di freddo non gli faccia bene, dice, e poi dice che tornerà il giorno dopo o quello dopo ancora e che penserà a tutto lui.
Sua madre prende in mano la situazione (perché mamma è sempre più capace, perché io non riesco mai a cavarmela da sola, mai…) e le manda un suo operaio di fiducia, che ha lavorato anche come tecnico per le caldaie. Una brava persona, le dice, vedrai che la mette a posto subito.
Quando suona il citofono è appena successo un piccolo incidente. Arturo sul seggiolone è riuscito a spostare la pentola della pappa ancora calda, del minestrone in realtà, che lei ha fatto per tutti e due e che stava per frullare per lui, un attimo di distrazione ed è coperto di verdure, calde, e urla come un disperato. Lo prende in braccio, sporcandosi tutta anche lei, va ad aprire il cancello e urla quarto piano, dal microfono appena sollevato. Socchiude la porta d’ingresso e va con Arturo in bagno, per cambiarlo. Arturo si divincola, piange, non vuole più stare sdraiato sul fasciatolo ma non riesce ancora a stare in piedi. Cambiarlo è diventata una battaglia nelle ultime settimane. Sente dal corridoio la porta richiudersi e dice: «Sono di qua, arrivo subito».
«Fai pure con comodo». Le risponde una voce maschile.
Ha un moto di sorpresa per il tu, di solito sua madre tiene a queste cose. Ma forse è perché la sa più giovane, magari coetanea.
«La caldaia è in cucina, più avanti sulla sinistra».
«Subito così? non mi dai un attimo?»
Arturo si è calmato e ha iniziato a sorridere.
«Ma sì certo; magari preparo un caffè, appena finisco qui». Basta che aggiusti quella cavolo di caldaia possiamo anche diventare amici, si dice.
Ma il tizio è venuto avanti per il corridoio, ha superato la cucina e ora fa capolino dalla porta del bagno sorridendo.
Lo guarda con stupore; ha un’aria giovanile, ma non lo è poi tanto, pensa. Vestito abbastanza bene, anche se ha la camicia logora; forse vive solo. Ma perché caspita è arrivato fino qui. «Ciao piccolino» Dice, senza neanche guardarla.
Arturo gli fa un sorrisone e questo le basta a perdonargli l’invadenza.
Ha finito di cambiarlo e gli sta tirando su i pantaloni.
«Posso prenderlo su io?» Le chiede, in modo gentile, intimo, e lo fa senza aspettare la risposta. Ma ha un bel modo con Arturo, che non si lamenta affatto.
Lei è un po’ imbarazzata, non sa bene dove porre il limite, o se c’è bisogno di porre un limite. Ma chissenefrega, poi pensa.
«Vado a preparare il caffè».
«Sì, grazie; noi ce ne stiamo un po’ insieme invece, vero piccolino?»
Quando è già in cucina gli sente dire: «Poi guardo subito quella caldaia».
Rimane in cucina mentre il caffè inizia a farsi; è assorta non saprebbe dire in quale pensiero, e quando il caffè esce dalla caffettiera la prende senza guanto, bruciandosi. Manda un urlaccio e fa cadere tutto per terra.
Lui si affaccia con Arturo in braccio. «Amore ma ti senti bene? Hai la faccia stanca». ♦

Domitilla Di Thiene
«Citando il Bill Murray di un film recente, quando ti nasce il primo figlio “la vita per come la conoscevi non esiste più”. È meraviglioso, ti dicono tutti. E lo è, meraviglioso, ma anche spaventoso, e io non lo avevo capito del tutto. Il racconto è parzialmente autobiografico, anche se il mio gatto come da foto vive ancora con noi, ma credo che sia biografico in senso più generale, come lo possono essere solo le esperienze fondamentali».

© Copyright 2007 Domitilla Di Thiene (originariamente pubblicato su "Fernandel" n. 59, gennaio-marzo 2007).