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Chiudo gli occhi e penso al sapore dell'acqua, al frigo vuoto, al mio cuore infranto. Alle lacrime che ho versato, al Martini che ho ingoiato. Alle mie giornate ubriache, ai batuffoli di cotone nelle orecchie.Quante volte, dottore, ho pregato mio marito di non essere troppo accomodante con lei, di non lasciarle sempre l'ultima parola, di non dargliela vinta ad ogni piccolo capriccio. Da quando era ancora piccolissima, e mandava giù con ostinazione qualunque cosa le capitasse davanti agli occhi. Davanti a noi, che non dicevamo niente. Non era normale, dottore, per una bambina di otto anni avere tutta quella fame, sempre, anche di notte. Non le dispiaceva niente, mentre mio marito diceva che era solo una bambina bene educata, non come quegli schizzinosetti figli delle mie amiche, bambini anoressici costretti a nutrirsi di pillole ricostituenti e vitamine per non diventare deboli di vista e di ossa.
Mascia Di Marco
«Il modello di donna appagata e felice in famiglia e con i propri bambini è spesso lontano dalla realtà, che può essere fatta di piccole frustrazioni e un senso della responsabilità che arriva inaspettato e deludente. Cosa succede quando proiettiamo i nostri desideri, le nostre aspettative, su di una persona? Cosa succede, in particolare, a una donna quando ritiene di potersi realizzare unicamente attraverso la maternità, e questa si rivela essere tutt'altra cosa da quell'idea di amore e serenità che si era immaginata? A volte le situazioni di tensione quotidiana possono diventare insostenibili, e il senso del dovere cede il passo ai lati più oscuri della propria natura. Credo che questo accada, in maniera più o meno complessa, a tutti noi, senza dovere naturalmente arrivare agli epiloghi di un racconto di finzione».
Mascia Di Marco vive in Abruzzo, a Vasto. È laureata in lettere e lavora a tempo pieno in un negozio, saltuariamente come dj. È presente nell'antologia Quote rosa. Donne, politica e società nei racconti delle ragazze italiane. Per Fernandel ha inoltre ha scritto a quattro mani Il cavedio e pubblicato il romanzo Nel cemento.
Mio marito fa l'idraulico. Si chiama Fernando. Quando ci siamo sposati io avevo ventisei anni e non pensavo che il matrimonio ci avrebbe messo così poco tempo a rivelarsi nella sua vera essenza. Dopo sei mesi avevamo smesso di andare al cinema insieme, dopo un anno già litigavamo come una coppia consumata e dopo due anni, alla nascita di nostra figlia, non ci guardavamo più negli occhi quando facevamo l'amore. La vita, tutti i giorni, ti consuma, e la voglia di andare a scovare il mistero sotto un mucchio di lenzuola accartocciate e nella trama del tuo telefilm preferito svanisce rapidamente. Il consiglio che mi dava sempre mia madre era quello di non andare mai troppo a fondo nelle cose, scavando non possono che venir fuori terra e fango. Bisogna trovarsi un anestetico, invece, qualcosa di buono e di forte che ti dia la forza di stare in piedi, che non faccia troppo male e che lasci i pensieri scorrere via il più rapidamente possibile. Io lo avevo trovato, il mio anestetico, e così affondavo labbra e denti nel Martini bianco.Mascia Di Marco vive in Abruzzo, a Vasto. È laureata in lettere e lavora a tempo pieno in un negozio, saltuariamente come dj. È presente nell'antologia Quote rosa. Donne, politica e società nei racconti delle ragazze italiane. Per Fernandel ha inoltre ha scritto a quattro mani Il cavedio e pubblicato il romanzo Nel cemento.
Quando scoprii di essere incinta mancava poco a Natale. Come ogni anno il rumoreggiare delle festività natalizie iniziò molto tempo prima che la gente avesse realmente voglia o bisogno di cominciare a pensare a palle di vetro colorate, maglioni a collo alto e gesù bambini di plastica. In televisione già si vedevano le prime pubblicità di panettoni e di rasoi elettrici, i concorsi "compra e vinci" fioccavano come la neve che non c'era e le ragazze svolazzanti nei gonnellini gialli ci promettevano gioia e tepore a bordo delle navi da crociera. Io rimanevo ipnotizzata a vedere tutta quella felicità, quei bei sorrisi le facce lisce dei ragazzi senza barba e quei culetti tondi quei capelli lunghi... I miei capelli erano già imbiancati, i miei denti ingialliti e le mie cosce somigliavano a dei fusi di tacchino ben ingrassato.
La felicità la puoi cercare ovunque. In un sogno che non si realizza o in un mazzo di rose. In una telefonata inaspettata o nella tua collezione di cristalli Swarovski. Tutto manca? Meglio così. Non si ha molto da perdere ed è più facile prendersi delle libertà. Quando si decide di sposarsi e di mettere su famiglia non ci si rende davvero conto, dottore, del pegno che bisognerà pagare per soffrire di meno la solitudine. Per fare un po' di vita sociale ci si iscrive in palestra, poi si va a prendere il caffè con le amiche della palestra chiacchierando di diete da fare e di attori da copertina. A quel punto si comincia ad averne abbastanza di tutto quel silenzio da domenica pomeriggio, la televisione accesa non ce la fa a riempire gli spazi, e così si decide di fare un figlio, un collante per qualcosa che non dovrebbe essere unito. Mi mettevo di profilo, davanti allo specchio, e vedevo la mia pancia che cresceva. Non mi sentivo più vuota, sentivo di avere un alleato dalla mia parte. Non c'era nausea che tenesse, chilo che prendevo, mi importava solo del mio bambino, del mio alleato, avrebbe fatto tutto quello che non ero stata capace di fare e sarebbe stato veramente felice. Quando poi venni a sapere che si trattava di una bambina mi sentii davvero la persona più felice del mondo. Le avrei potuto mettere i vestitini più belli, le avrei spazzolato i capelli prima di andare a dormire, mi avrebbe accompagnata nei negozi e mi avrebbe consigliata su ogni acquisto. Non avrei avuto più bisogno della palestra, e di quelle stupide amiche che parlavano solo di diete e di attori, avrei avuto la mia bambina con me.
All'ottavo mese di gravidanza già la odiavo. Non pensavo di poter ingrassare così tanto, e poi la nausea sempre più forte che non passava mai.
Con l'immaginazione puoi fare quello che vuoi. Puoi smetterla di fare lavatrici e bucati a mano tre volte al giorno. Puoi comprarti tutti i vestiti che ti piacciono di più, roba firmata Gucci e Dolce e Gabbana, e mai più la robaccia cinese che si trova nei negozi. Puoi guardarti allo specchio e far finta di avere ancora vent'anni, e la bocca rossa come una ciliegia e le gambe morbide e sottili. Puoi credere di essere ancora innamorata, e che l'amore valga qualcosa di più di una bolletta già pagata. Puoi fare finta che non sia successo niente, e che tuo marito tornando a casa ti abbia trovato a stirare la tovaglia buona o a preparare i biscotti al cioccolato con la bambina.
«Tesoro, cosa vuoi quest'anno per Natale?»
«Ma se manca più di un mese».
«Sì, ma in centro hanno già messo tutti gli addobbi e le luci e alcuni negozi hanno iniziato le offerte».
«Quando ci sei stato?»
«Dove?»
«Ma in centro, no?»
Erano mesi, dottore, che non andavo in centro, le mie giornate si alternavano tra la stanza dei giochi e dello stiro e il Conad di via Alessandrini. Il martedì e il giovedì, per i possessori della carta Conad, c'era anche uno sconto speciale su molti prodotti, e così quelli erano i due giorni dedicati alla spesa. Cercavo sempre di evitare di portare la bambina con me, ma a volte i suoi capricci diventavano così insistenti che l'unico modo per farla smettere era portarla a fare spese. Era così goffa, dottore, così goffa... Goffa e maldestra. Tra le corsie del supermercato, in mezzo a tutti quei carrelli, le dovevo tenere la mano con forza per non farla scappare da una parte all'altra, con il rischio sempre di rompere qualcosa. Non c'è niente da fare, i bambini di oggi comandano loro e fin da piccoli vogliono decidere su tutto, cosa mangiare come vestirsi come parlare e cosa comprare.
Sento solo un forte senso di colpa, dottore, per tutto quello che le dicevo. La rimproveravo per ogni sciocchezza, sembrava che mi desse fastidio tutto quello che faceva, il suo modo di comportarsi il suo modo di vestirsi. Io ci provavo a dirle che una bambina grassa come lei non le doveva mangiare tutte quelle schifezze, roba piena di coloranti e conservanti, e che poi continuava a ingrassare e che cosa sarebbe diventata? Forse avevo bisogno di un po' di anestetico quel giorno, dottore, e poi di farmi una doccia. La bottiglia di Martini bianco in frigo non mi mancava mai. A volte, per non far vedere a Fernando e a quella piccola ficcanaso che l'avevo già finita, riempivo la bottiglia vuota di acqua e tenevo la bottiglia buona chiusa nell'armadio, così quando ne avevo voglia me ne versavo un po' in un bicchiere e lo riempivo di ghiaccio.
Sento le gambe intorpidite.
Mi metto a letto, ogni sera, e già so che non riuscirò a dormire. È sempre stato il mio problema, quello del dormire. C'è sempre qualcosa che non va appena mi infilo sotto le coperte, qualcosa che non mi fa smettere di pensare. Il materasso è troppo duro, o troppo morbido, sento le molle dietro la schiena che mi tormentano, le lenzuola mi si attorcigliano addosso o emanano cattivo odore, la coperta mi fa sudare, sento dei rumori per casa. La casa, quando c'era la bambina, sapeva sempre di varechina e di detergenti per il bagno, di borotalco e di baby shampoo Johnson. Faccio sempre una lunga doccia fredda, la mattina, per dimenticare di avere addosso solo quattro ore di sonno. Mi infilo nella vasca, apro il rubinetto e direziono il getto sulla pancia. L'acqua addosso mi gonfia la vescica, e la pipì calda che scende sulle gambe fa da contrasto al freddo dell'acqua. È da un po' che ho scoperto i piaceri del telefono della doccia, allargo un po' le cosce e faccio andare lo spruzzo nella direzione giusta, chiudo gli occhi e penso a quel ragazzo biondo che mi viene sempre a trovare di notte, mentre sento Fernando russare rumorosamente al mio fianco che svuota l'aria ingurgitata durante la giornata. Finita la doccia mi vesto, preparo il caffè e accendo la televisione in cucina, ascolto il mio oroscopo e quello delle persone che conosco, Fernando va a lavorare e io mi riposo un po' sul divano, prima di iniziare a rassettare le stanze e a spolverare i mobili della casa. Ci vogliono molte ore per pulire tutto a fondo, ho un sacco di oggetti a cui sono affezionata. Sono così fragili, e bisogna pulirli con cura per non rischiare che si rompano. Appena sposata ho iniziato a collezionare gli animaletti di cristallo Swarovski. Le amiche della palestra mi dicevano che era una cosa da vecchi collezionare Swarovski, e forse un po' avevano ragione loro, perché mi ricordo che anche mia nonna ne aveva tanti sul mobile in salotto. Loro collezionavano orecchini, invece, e scarpe firmate, e borsette da sera, ma a me non servivano quelle cose, perché noi non uscivamo mai la sera, e poi un bell'oggetto secondo me guadagna valore nel tempo, e dà sempre una certa soddisfazione vederlo brillare per casa.
Mi sono molto arrabbiata quel pomeriggio della vigilia di Natale, dottore, ho perso la testa ma non volevo. È stato solo un incidente. Solo un incidente. C'era da finire di preparare la cena di magro, come vuole la tradizione. Gli antipasti di verdure fritte, il sugo di tonno e il pesce al forno. I miei suoceri e la mia famiglia sarebbero venuti a cena da noi, e come ogni anno dovevo fare tutto da sola. Ero molto stanca quel giorno, avevo dovuto fare la spesa e avevo finito tutti i soldi che mi aveva dato Fernando. Volevo comprare un regalo per me, e per la bambina, ma non avevo più soldi. Non è avaro Fernando, è solo che il lavoro non è più quello di una volta e la concorrenza è tanta. In fondo siamo fortunati e non ci possiamo lamentare troppo, un lavoro come quello di mio marito è un lavoro che non passa mai di moda, è un lavoro utile che serve alla gente. Vent'anni fa avevo altro per la testa, e se qualcuno mi avesse detto che cosa voleva dire avere un marito, una figlia e tutto il resto, non ci avrei creduto. Forse mi sarei tirata indietro. Non volevo ridurmi a fare la casalinga, ma d'altra parte non so fare nient'altro, non ho studiato e non ho mai voluto lavorare, che cosa mi potevo aspettare? Credo che ora, dottore, a farmi parlare così sia questo maledetto senso di colpa che mi porto addosso, ma io continuo a ripeterlo, è stato un incidente. Solo un maledetto incidente. Quando senti in televisione, al telegiornale o a "I fatti tuoi" di "incidenti" simili, dici sempre: «Ma va'. Ma che incidente e incidente, è stato tutto volontario. A chi la volete raccontare...» Però, poi, se succede a te, le cose cambiano, e nella testa hai solo una gran confusione, e nel cuore solo un buco nero che si allarga ogni giorno che passa. Non mi è mai passato per la testa di lasciare Fernando, soprattutto ora, dopo quello che è successo, ora che poteva abbandonarmi e non l'ha fatto. Ci ha creduto, lui, alla storia dell'incidente, ci ha creduto anche se io mi lamentavo sempre della bambina, di quanto era grassa, e di quanto era capricciosa, di quanti soldi spendeva in scemenze e io che non potevo comprarmi niente per colpa sua. Ci ha creduto anche se ci ha trovate così, appena tornato a casa la sera della vigilia di Natale, lui con i suoi regali in mano e io seduta vicino alla bambina per terra.
«Perché», mi dice ogni sera mio marito quando ci mettiamo a dormire, «perché non hai chiamato l'ambulanza quella sera? Perché non l'hai chiamata subito, perché?». Io non lo so perché non l'ho chiamata l'ambulanza quella sera, però lui è rimasto con me in questi anni, e io non me la sento di lasciarlo andare via. ■
© 2008 Mascia Di Marco