I. Graz Hauptbahnhof
La notizia del giorno, riportata a caratteri cubitali sulla prima pagina della Kleine Zeitung, era che la relazione tra Antonio Banderas e Melanie Griffith stava andando a gonfie vele, al punto che presto avrebbero dato l’annuncio del loro matrimonio.
Federica Marzi
Da quando, nel 2007, la Slovenia è entrata nell’area Schengen, anche nell’estremo Nordest italiano è caduto un confine che per tutta un’epoca aveva simboleggiato la guerra fredda. Con l’abbandono di valichi e garitte, con la definitiva alzata delle sbarre confinarie, con il taglio delle reti, Trieste e il Friuli-Venezia Giulia sono entrati in una nuova fase, o forse, come spesso si sente dire, in una nuova epoca storica. Si tratta in ogni caso di una transizione che solo qualche anno fa sarebbe stata inimmaginabile.
Fa tuttavia un certo effetto attraversare ancora quel confine che, per quanto abbandonato, è pur sempre rimasto al suo posto come una strana, inestirpabile escrescenza. In questo esso risulta molto simile a quell’altro confine, animico e psichico, che di quello fisico e politico è una diramazione diretta, sebbene invisibile a occhio nudo. Anche quest’ultimo è di difficile estirpazione, nonostante i molti cambiamenti positivi già avvenuti.
Il mio racconto Così felice parla in qualche modo di questo e di altri confini a Nordest, in un’epoca in cui le frontiere erano più che mai operative, benché il muro di Berlino fosse già caduto, l’Urss dissolta e i processi di integrazione europea pienamente in corso. La vicenda si colloca a ridosso degli accordi di Dayton che nel novembre 1995 posero fine ai tre anni e mezzo di guerra in Bosnia-Erzegovina creando una struttura statale a due “entità”, ognuna con un suo proprio territorio: la Federazione croato-musulmana e la Republika Srpska. Sullo sfondo del mio racconto vi è dunque la guerra nella ex Jugoslavia, scoppiata nell’indifferenza collettiva alle porte di casa nostra e spintasi fino a questi confini a Nordest e oltre. Per di qua passarono infatti molti profughi, richiedenti asilo e sfollati di guerra che chiesero protezione a un’Europa occidentale impreparata a gestire situazioni di questo tipo, diventando in molti casi oggetto di misure per lo più emergenziali e temporanee. Gli accordi di Dayton prevedevano fra l’altro il rientro dei profughi nei paesi di origine, cosicché all’indomani della loro stipula, per molti bosniaci e bosniache si presentò il problema urgente del ritorno. Che fare? Tornare? Ma dove? E a quali condizioni? Per molti di loro (è questo ad esempio il caso dei musulmani provenienti dalle località della parte orientale, poi inglobate nella Republika Srpska, tra le quali la più tristemente nota è Srebrenica) il ritorno risultò impossibile o quanto meno inaccettabile, benché nemmeno la scelta di rimanere nella “fortezza Europa” potesse considerarsi una soluzione sempre praticabile e possibile.
Così felice va collocato in questo contesto specifico, sebbene ad essere indagati non siano i grandi eventi, ma le storie quotidiane, con i loro risvolti perfino ironici, in una linea di continuità fra macro e microstoria. Così felice è però un racconto che parla anche di attraversamenti di confini, e dunque di attraversamenti fisici e psichici, linguistici e culturali, sia pur con tutte le difficoltà e le complicazioni del caso. Questa è del resto l’altra faccia della lunga storia di questo confine a Nordest: invalicabile da una parte, poroso dall’altra, da sempre luogo di passaggi e traffici transfrontalieri – dal turismo, al commercio, agli affari illeciti –, ma anche luogo possibile di attraversamenti creativi, capaci non tanto di “abbattere” i muri e le frontiere, quanto di farli passare in secondo piano, rendendoli via via secondari e ininfluenti con la sola forza dell’ostinata pratica quotidiana.
«Sono nata a Trieste nel 1974 e sono cresciuta in un paese sloveno al di qua del confine, poco lontano dai valichi di frontiera di Pese (Pesek) e Basovizza (Bazovica). Ho studiato e vissuto in Austria negli anni Novanta, in un periodo in cui c’erano ancora i confini e i viaggi si facevano in treno munendosi di un passaporto valido, di lire da cambiare in scellini oltre che di molta pazienza. Attualmente vivo e lavoro a Trieste».
«So glücklich nach der Verlobung», così felici dopo il fidanzamento, titolava infatti l’articolo nella cui lettura Emir sembrava particolarmente assorto. Intanto lei continuava a spiare i suoi movimenti zitta e buona, incrociando le dita e facendo gli scongiuri. Superstiziosa com’era (non per niente era del sud), sperava che quell’interesse di Emir fosse un segno del destino, che forse stava per compiersi. Perché non poteva essere solo un caso che proprio quel giorno si parlasse della felicità da cui era stata baciata la coppia Banderas-Griffith, e che l’attenzione di Emir fosse stata attirata proprio da quell’articolo in particolare.Fa tuttavia un certo effetto attraversare ancora quel confine che, per quanto abbandonato, è pur sempre rimasto al suo posto come una strana, inestirpabile escrescenza. In questo esso risulta molto simile a quell’altro confine, animico e psichico, che di quello fisico e politico è una diramazione diretta, sebbene invisibile a occhio nudo. Anche quest’ultimo è di difficile estirpazione, nonostante i molti cambiamenti positivi già avvenuti.
Il mio racconto Così felice parla in qualche modo di questo e di altri confini a Nordest, in un’epoca in cui le frontiere erano più che mai operative, benché il muro di Berlino fosse già caduto, l’Urss dissolta e i processi di integrazione europea pienamente in corso. La vicenda si colloca a ridosso degli accordi di Dayton che nel novembre 1995 posero fine ai tre anni e mezzo di guerra in Bosnia-Erzegovina creando una struttura statale a due “entità”, ognuna con un suo proprio territorio: la Federazione croato-musulmana e la Republika Srpska. Sullo sfondo del mio racconto vi è dunque la guerra nella ex Jugoslavia, scoppiata nell’indifferenza collettiva alle porte di casa nostra e spintasi fino a questi confini a Nordest e oltre. Per di qua passarono infatti molti profughi, richiedenti asilo e sfollati di guerra che chiesero protezione a un’Europa occidentale impreparata a gestire situazioni di questo tipo, diventando in molti casi oggetto di misure per lo più emergenziali e temporanee. Gli accordi di Dayton prevedevano fra l’altro il rientro dei profughi nei paesi di origine, cosicché all’indomani della loro stipula, per molti bosniaci e bosniache si presentò il problema urgente del ritorno. Che fare? Tornare? Ma dove? E a quali condizioni? Per molti di loro (è questo ad esempio il caso dei musulmani provenienti dalle località della parte orientale, poi inglobate nella Republika Srpska, tra le quali la più tristemente nota è Srebrenica) il ritorno risultò impossibile o quanto meno inaccettabile, benché nemmeno la scelta di rimanere nella “fortezza Europa” potesse considerarsi una soluzione sempre praticabile e possibile.
Così felice va collocato in questo contesto specifico, sebbene ad essere indagati non siano i grandi eventi, ma le storie quotidiane, con i loro risvolti perfino ironici, in una linea di continuità fra macro e microstoria. Così felice è però un racconto che parla anche di attraversamenti di confini, e dunque di attraversamenti fisici e psichici, linguistici e culturali, sia pur con tutte le difficoltà e le complicazioni del caso. Questa è del resto l’altra faccia della lunga storia di questo confine a Nordest: invalicabile da una parte, poroso dall’altra, da sempre luogo di passaggi e traffici transfrontalieri – dal turismo, al commercio, agli affari illeciti –, ma anche luogo possibile di attraversamenti creativi, capaci non tanto di “abbattere” i muri e le frontiere, quanto di farli passare in secondo piano, rendendoli via via secondari e ininfluenti con la sola forza dell’ostinata pratica quotidiana.
«Sono nata a Trieste nel 1974 e sono cresciuta in un paese sloveno al di qua del confine, poco lontano dai valichi di frontiera di Pese (Pesek) e Basovizza (Bazovica). Ho studiato e vissuto in Austria negli anni Novanta, in un periodo in cui c’erano ancora i confini e i viaggi si facevano in treno munendosi di un passaporto valido, di lire da cambiare in scellini oltre che di molta pazienza. Attualmente vivo e lavoro a Trieste».
Si mise così in attesa che Emir si decidesse a parlare e a darle la risposta che tanto aspettava. Ma da come tirava su col naso o sbuffava il fumo della sigaretta era impossibile dire con certezza se sarebbe arrivata e, soprattutto, se sarebbe stata affermativa come lei sperava.
«Trinkst du nicht?», gli chiese. Non bevi?
Il cappuccino alla sua destra si stava freddando. Emir si accese la terza sigaretta della giornata, portandosi poi la tazza alle labbra.
Ora che aveva un po’ della sua attenzione, avrebbe voluto prenderlo di petto e affrontare una volta per tutte la questione tra loro in sospeso. Ma non osò farlo, pensando che forse non era di buon auspicio iniziare il discorso proprio alla terza sigaretta di Emir. Il tre è un numero che non le era mai piaciuto. Troppo carico di simboli, di storia. Meglio starsene zitta, allora. Meglio ordinare ancora qualcosa e aspettare che fosse lui a palesare le sue intenzioni.
Un vassoio con un altro Apfelsaft frizzante arrivò al loro tavolo. Lei disse «dankeschön», sorridendo alla cameriera e storpiando la "ö" in una "e". Dankeschen. Ma, quando se ne accorse, era ormai troppo tardi per provare a ridirlo bene come andava detto, perché la cameriera se n’era già andata via per gli affari suoi.
Non c’era di che preoccuparsi, però. Il suo era in fondo solo un piccolo difetto di pronuncia. E poi Emir trovava carino il suo modo di parlare tedesco. Le sue "ö" smozzicate erano per lui solo uno dei suoi vari «besondere Kennzeichen», uno dei suoi segni particolari, come li chiamava, proprio come le consonanti in finale di parola, che lei non riusciva mai a tagliare giù dritte, ma che faceva sempre sbavare in un’inopportuna, troppo italica "e". "Verbotene", "Gutene Tage", "trinkene", e così via.
Emir stava ora studiando i risultati delle partite di calcio, e niente sembrava turbarlo: né il tedesco imperfetto della donna innamorata che aveva di fronte a sé, né il fitto vociare in quel caffè di passaggio, né gli annunci gracchiati agli altoparlanti, né lo smilzo Babbo Natale passato anche al loro tavolo per distribuire una manciata di Mozartkugeln in formato mignon.
Sempre più sulle spine, diede un’occhiata all’orologio, mettendosi a rovistare tra i pacchetti sparpagliati nella borsa riposta fra gli stivaletti col tacco basso, cercando il regalo per Emir. Sistemò il pacchetto giallo canarino in cima al mucchio, aspettando il momento giusto per darglielo.
Quando Emir si accese la quarta sigaretta, chiese il conto, guardandolo poi dritto negli occhi, quasi volesse provare un’ultima volta a insinuarsi tra i suoi pensieri più segreti. Emir allora si riscosse dalla sua apparente apatia scoppiando a ridere, forse perché, chiedendo di poter pagare, lei aveva di nuovo commesso qualcuno dei suoi soliti strafalcioni, o forse perché la sua aria da personaggio da melodramma all’italiana lo divertiva un sacco.
Quando Emir l’accompagnò al binario gremito di studenti in partenza per le vacanze, si teneva aggrappata stretta al suo braccio e si sforzava di parlare normalmente di cosa avrebbero fatto quando sarebbe tornata dopo il primo dell’anno. Ma inciampava di continuo in una pronuncia che le usciva dalle labbra sempre più storpiata: ormai se ne accorgeva perfino lei.
Il treno era in arrivo al loro binario. Li investì un rombo assordante, che però non riuscì a inghiottirsi del tutto le parole di Emir.
«Ich liebe dich, ich liebe dich», le disse. Ti amo, quasi a volerla rassicurare. Ma, a dire il vero, lei non sapeva più se crederci o meno.
«Sretan Božić», cambiò allora discorso lei, buon Natale, pur sapendo come quelle incursioni estemporanee nella sua lingua non lo entusiasmassero affatto.
Anzi, sembrava più fastidio, un fastidio incomprensibile e più forte di lui, quel che Emir cercava di reprimere educatamente ogni volta che lei provava a dirgli qualcosa in serbo-croato. Così che Emir rispondeva sempre o con un’altra risata, come a volerla prendere in giro, oppure in un tedesco secco: «Ja, gleichfalls, frohe Weihnachten».
Sì, altrettanto. Buon Natale.
II. Železniška postaja Ljubljana
Si sedette rabbrividendo sulla panchina di marmo ghiacciato che si trovava più o meno a metà del binario completamente deserto. Non si vedeva quasi a un palmo dal naso per la nebbia fitta, come succede spesso nei pomeriggi d’inverno a Lubiana.
Era arrivata alla stazione intermedia, dove avrebbe dovuto aspettare quasi un’ora prima di salire sul treno in arrivo da Budapest. Per la precisione quarantasette minuti in tutto.
Si mise la borsa di carta sulle ginocchia. I manici le sfioravano le labbra. Da lì sbucava fuori il pacchetto giallo canarino per Emir.
Chissà, forse aveva fatto male, forse doveva darglielo lo stesso, quel regalo.
Sì, ma quando?
E come?
Non aveva saputo trovare il momento adatto per darglielo, ecco. Perché anche se ormai avrebbero dovuto esserci abituati, a entrambi gli addii riuscivano malissimo.
Perché ogni volta, quando arriva quel treno diretto a Lubiana, è come se si stesse loro spaccando la terra sotto i piedi, pronta a inghiottirli. Poi tutto si riaggiusta a poco a poco. Magari lei si sfoga con un bel pianto sotto gli occhi bonari di qualche vecchia intabarrata nel loden, ma, al primo confine tra Austria e Slovenia, è già tutto passato. A quel punto è ormai lontana, non è né a casa, né a Graz, e quindi in nessun luogo, ed è proprio in questo tipo di situazione sospesa che tutto sembra ancora possibile.
Già, tutto è ancora possibile.
Così aveva pensato anche qualche notte prima, rigirandosi nel letto, quando s’era ripetuta mentalmente il discorso che avrebbe fatto a Emir. Tutto è ancora possibile, s’era detta più volte, fino a convincersene.
Era perciò deciso: gli avrebbe fatto la sua proposta prima del 21, sotto lo stress della partenza, di modo che così Emir si sarebbe forse spicciato a darle una risposta.
Gliel’aveva chiesto giusto giusto qualche sera prima a cena, quando era tornato fuori il discorso sugli accordi di Dayton, a causa dei quali Emir non sapeva più se rimanere in Austria, tornare al suo paese o, nel peggiore dei casi, venirci rimpatriato d’ufficio. E questo era il vero problema, perché la Repubblica Srpska, quella fetta di Bosnia uscita dalla torta avvelenata della guerra, non era più un buon posto dove tornare per un musulmano come lui. Era ormai quasi un mese che Emir continuava a tormentarsi per questa faccenda. Ed era appunto per questo che lei aveva pensato di fargli la sua proposta, sulla quale aveva riflettuto una notte intera. Perché non poteva tollerare il pensiero di rimanere senza Emir. Perché se ne era innamorata e voleva farlo rimanere in Austria.
Tutto ciò le era sembrato sensato. In fondo lei voleva solo essere felice. E, con Emir, lo sarebbe stata.
Oh, sì. Felice.
Così felice.
Proprio come Antonio Banderas e Melanie Griffith.
Se Emir avesse accettato la sua proposta, poi, sarebbe diventato un cittadino europeo a tutti gli effetti, con tanto di passaporto. Il che sarebbe stato un valore aggiunto alla loro felicità.
«Wir sollten heiraten», dovremmo sposarci, gli aveva allora detto a bruciapelo davanti a un piatto di brodo Knorr, dimenticandosi di aspirare la "h" di "heiraten".
Certo, forse non era un bel modo di parlare, questo, ma non avrebbe saputo come altro fargliela, sennò, questa benedetta proposta di matrimonio, alla quale lui non aveva ancora risposto né con un sì, né con un no. Quella sera a cena si era semplicemente limitato a ridere divertito di quella sua trovata.
III. Villa Opicina
Ormai manca poco. Il treno ha fatto sosta al confine, in una terra di nessuno, per i rituali controlli di polizia e dogana. Prima arriva la polizia di frontiera slovena, in uniforme grigia, che di solito si sbriga; poi quella italiana, in uniforme blu, che invece difende scrupolosamente quest’ultimo avamposto europeo dalle temute infiltrazioni “balcaniche”. Il treno ospita come sempre una manciata di viaggiatori: gli italiani di ritorno dall’Austria passano solitamente per Villacco, mentre di turisti in arrivo dall’ex blocco orientale se ne vedono ancora pochi. Così questa sosta infinita e sospesa nel nulla, in uno scompartimento completamente vuoto, sembra ancora più tetra e irreale.
In più stavolta dev’essere successo qualcosa, probabilmente la solita soffiata su qualche partita di droga in arrivo dall’Est, perché, dopo aver sfogliato il suo passaporto, i poliziotti le fanno aprire la valigia, frugando tra i suoi panni puliti e sporchi, sventagliando i libri, estraendo a una a una da una busta della Spar le foto di lei e Emir insieme a Graz. Ed è come se quei guanti di pelle nera stessero frugando nella sua intimità.
Dopo di che rovistano fra i regali. Alcuni li scuotono. Quello per Emir, giallo canarino, finisce per terra, accanto ai suoi piedi. La bottiglia per il babbo gliela fanno scartare. Controllano la pressione del tappo. Le fanno poi togliere il cappotto, guardando perfino nelle tasche. Da lì spunta fuori un pacchetto, avvolto in una carta a fiori, grande come il palmo di una mano, di cui però lei non sa nulla. Fa finta di niente mentre il più giovane dei due uomini in divisa lo scuote.
«Che cos’è?», le chiede il poliziotto reggendo il pacchettino tra pollice e indice.
Tentenna. Non sa che dire. Anche lei è sorpresa, almeno quanto lui.
Che Emir gliel’abbia ficcato in tasca, abbracciandola, all’arrivo del treno?
Eppure avevano detto niente regali quest’anno, tanto lui il Natale non lo festeggia. E poi avevano deciso di comune accordo di inviare piuttosto un po’ di scellini a un’organizzazione umanitaria in Bosnia.
Eppure…
Che dentro quel pacchetto ci fosse qualcosa di pericoloso? O di proibito, da farle portare oltre confine?
Impossibile. Che cosa le salta in mente?
Mai come in questo momento si accorge di quanto poco ancora conosce Emir. E se stessa. Improvvisamente capace di sospettare così di lui.
Col cuore in gola tira allora a indovinare, sperando di farla franca: «È una saponetta», farfuglia al poliziotto.
«Signorina, questo pacchetto è troppo leggero per poter essere una saponetta».
Una vampata di calore le sale dal mento fino all’attaccatura dei capelli. «Mi scusi, ho detto tanto per dire. Non so niente di questo regalo».
I due poliziotti si guardano, annuendo d’intesa.
«Come è finito, allora, nella tasca del suo cappotto?»
«Credo che il mio fidanzato… ecco, il mio fidanzato è rimasto in Austria e forse… ma eravamo in un caffè, alla stazione di Graz, era pieno di gente, non so, potrebbe essere stato chiunque…»
«Va bene, dobbiamo aprire anche questo», dice il poliziotto dandosi un’aria professionale, come se si stesse accingendo a un compito di estrema delicatezza.
Il giovane in divisa comincia a staccare il nastro adesivo da un lato, togliendosi poi i guanti e dandoli in consegna al collega perché altrimenti non riuscirebbe a maneggiare la carta sottile. Lei da sotto riesce a vedere il dorso della mano pelosa, e sopra, appoggiata sul palmo nascosto, una scatoletta color blu scuro.
Trattiene il respiro.
Quelle manone cercano di aprirla maldestramente. Ma la scatola non si apre. Allora il poliziotto riprova finché da lì sbuca fuori un oggetto incomprensibile, che, solo quando viene estratto dalle dita del poliziotto, si rivela essere un anello con una decorazione floreale.
Alla vista improvvisa di quell’oggetto si sente persa, frastornata, come se qualcuno le avesse appena tirato un pugno sul naso. E d’un tratto quasi non le importa più che quel tipo in divisa se lo sia infilato sull’unghia dell’indice della mano che regge la scatoletta, mentre con l’altra continua a frugare nell’imbottitura. Non le importa che il poliziotto non abbia ancora capito che quello è solo un anello di fidanzamento e che, continuando in quel modo, si sta mettendo in ridicolo anche davanti al suo collega, sempre più imbarazzato. Tutto quel che sa e le importa è questa felicità, di cui si sente traboccare, straripare, una felicità così tanto cercata, così abnorme, così sconfinata, da scaraventarla improvvisamente nel panico più totale.
IV. Stazione di Trieste centrale
Si rigirava l’anello fra le dita con la sensazione che quel delizioso oggetto in realtà scottasse le mani.
Nel frattempo il treno si era rimesso in moto. E così pure i pensieri.
Era un bell’anello, non c’era che dire. In argento, con una cascata di turchesi e coralli a comporre un fiore vistoso e grande quasi quanto due suoi pollici. Sapeva bene dove Emir l’aveva acquistato. Era in un negozio poco distante da casa loro. L’aveva visto un paio di volte in vetrina e su per giù sapeva anche quanto costava. Comprarlo era stata probabilmente una piccola follia. Emir doveva aver speso una barca di soldi e forse era per questo che all’ultimo momento aveva chiesto che lo mettessero in turno per tutte le notti disponibili, approfittando del fatto che i colleghi premevano invece per ottenere le ferie.
Era un oggetto prezioso come non ne aveva mai avuti. E, ora che ce l’aveva, si sentiva quasi inadeguata alla situazione. Perché ora avrebbe dovuto dare la notizia a tutti. A partire dai suoi genitori. Doveva dirglielo, che lei e Emir stavano facendo sul serio e chissà come l’avrebbero presa. A sua madre sarebbe venuto sicuramente un colpo, se non altro perché a quel punto era scontato che lei sarebbe rimasta a vivere a Graz, con Emir, forse per sempre. E poi c’era ancora la questione della Bosnia, un rompicapo fitto di segni e simboli indecifrabili. Emir le aveva spiegato tante volte come stavano le cose. I serbi, i musulmani… ma lei non ci aveva capito niente lo stesso, o forse, presa com’era dal suo innamoramento, non aveva voluto capirci niente.
Continuò per un bel po’ a rigirarsi nervosamente l’anello tra le dita, macinando pensieri ed emozioni contrastanti. Finché si decise a infilarselo all’anulare, tanto per vedere come le stava, insistendo giusto un pochino perché scendesse fino in fondo.
Perfetto.
L’anello le stava stupendamente, un vero capolavoro.
Quando provò a toglierselo, però, non riuscì più a sfilarselo dal dito. L’anello non le andava oltre l’attaccatura delle falangi. Riprovò ancora una volta, tanto per scrupolo. Inutile. Non usciva.
Allora smise di torturarsi la mano, ma non poté evitare di sentirsi delusa e rammaricata per non avere le dita affusolate come Emir s’era evidentemente figurato che fossero.
Ma, chissà, magari erano soltanto un po’ gonfie a causa dello stress del viaggio. Magari, dopo una bella dormita e spalmandoci sopra un po’ di sapone, si sarebbe sfilata l’anello più agevolmente e tutto sarebbe tornato a posto.
Sì, ne era certa, sarebbe tornato tutto a posto.
Andrà tutto bene, si disse, cercando di convincersene, scorgendo poi dal finestrino il porticciolo di Barcola, illuminato da una fila di luci di una tonalità fra l’arancio e il giallo scuro: segnale che ormai stava per arrivare.
Allora si alzò in piedi di scatto per rimettersi il cappotto e risistemare la sua roba, racimolando qualche pacchetto e richiudendo la valigia rimasta aperta tutto quel tempo. Si ammirò ancora una volta l’anello incastrato al dito. Poi tirò d’istinto le tendine blu, fatte di una stoffa spessa e ruvida, come se con quel gesto, apparentemente insensato ma deciso, avesse voluto lasciar fuori e allontanare da sé tutte le preoccupazioni che, come dei macigni, si stavano inspiegabilmente frapponendo fra lei e la sua felicità.
Strinse la mano a pugno.
Oh, sì.
Ora che ce l’aveva, doveva tenersela ben stretta, non doveva farsela scappare, la felicità. Anche se, probabilmente, sarebbe stato sempre tutto un rincorrersi. ■
© 2010 Federica Marzi