Nadia Terranova, L'elefante sulle scale


Berlino, 2000
«Il grande altrove», sentenzio allontanando il dizionario che non ho neppure aperto.
«Per me è la grande distanza», Andrea batte la mano sul foglio.
«Distanza? La distanza è tangibile, è da qui a lì, come fai a dire che è distanza?»
Nadia Terranova
Nadia Terranova, classe 1978, siciliana, vive a Roma nel quartiere Pigneto. Ha scritto diversi racconti (uno anche nell’antologia Quote rosa. Donne, politica e società nei racconti delle ragazze italiane e un altro nel successivo Fiocco rosa. Gravidanza e maternità nei racconti delle donne italiane. Nel 2015 per Einaudi ha pubblicato Gli anni al contrario. Wikipedia le dedica una pagina.
«Capisco che l’altrove ti affascini. Ma beyond non significa altrove».
Mi arrendo alla sua ottusità. Scosto il foglio bianco, la stampata da tradurre, le nostre penne e il dizionario. Allungo le braccia sulla scrivania e lascio cadere la testa sui gomiti. «Andrea… tu uccidi la poesia» boccheggio.
È incerto tra ridere e offendersi. «Paka, sei strana», decide. Va a farsi un tè nella mia cucina e già che c’è alza al massimo il volume dello stereo.
Dovrei fidarmi di quell’attimo in cui sento che non ha capito nulla dei miei sentimenti. Strana? Rispetto al punto da cui sono partita mi sento più che normale.


Messina, 1996
Mia madre si era innamorata di qualcuno che gestiva un locale alla moda, le mie amiche trovavano la cosa interessante, io facevo i conti con l’imbarazzo. Di mio padre neanche l’ombra, a parte le cartoline da New York per le feste comandate. Per i miei diciott’anni ne era arrivata una con le torri gemelle: «Alla mia bimba, che presto verrà a trovarmi nel paese dei sogni che si avverano», poi c’erano le firme: sua, della seconda moglie e della manina incerta della sorellinastra che non avevo ancora conosciuto. Mentre mettevo via la cartolina, mia madre dalla sala pranzo cantilenava: «Paka, ti prego: telefona ai vigili per la multa!» Eludeva la propria inettitudine alla risoluzione di rogne burocratiche usandomi per tirarsene fuori: sfruttando il fatto che avevamo la stessa voce potevo trattare al posto suo con impiegati e forze pubbliche.
Con due genitori del genere chissà che delitti avevo commesso nel corso della mia vita precedente.


Berlino, 2000
«Torniamo alla nostra esercitazione?»
Spengo lo stereo e mi piazzo davanti ad Andrea sdraiato a pancia in giù sul divano, un braccio penzoloni.
«Per ora lasciamo stare beyond. Sono andata avanti».
Aspetta qualche minuto prima di girarsi e guardarmi dritto negli occhi. «Stasera chiederemo a Kate il significato di beyond».
Vuole frenare la mia presunzione. Ha le sue ragioni. Mi costringe a fare riferimento all’autorità madrelingua di una ragazza che detesto.
«Ho visto le stelle cadere silenziosamente giù dai tuoi occhi», declamo stringendo il foglio nella mano sinistra e agitando la penna con la destra. «Tutte le mie visioni…»
«Watch non significa vedere ma guardare», mi interrompe lui. «E poi non dice tutte le mie visioni ma tutte le visioni che ho avuto».
«Passi per tutte le visioni che ho avuto, anche se la contemporaneità sottesa di mie mi apparteneva di più», gli vengo incontro saputella, prima di sferrare con sicurezza: «Ma non puoi credere che io abbia davvero confuso watch e see. È evidente che ci stavo mettendo creatività».
«Paka. Quando sarai una scrittrice scriverai quello che vorrai» conclude lui.


Messina, 1998
In un deserto di consigli e interferenze, mi ero iscritta all’università senza che i miei genitori aprissero bocca. Avevo sempre sospettato che un’infanzia autarchica nascondesse dei vantaggi e finalmente, a vent’anni, mi godevo la libertà che altri non avrebbero avuto.
La facoltà di filosofia non nascondeva la sua eredità sessantottina: fricchettoni e punk, che erano tali ormai solo nell’aspetto, regalavano alle aule un’atmosfera originalmente esclusiva. Il secondo piano, il nostro, era un territorio profondamente diverso dal primo (lettere) e dal terzo (lingue). Con i libri di Heidegger sottobraccio, i nostri cineforum, le nostre tesine dai titoli complicati, ci sentivamo gli eletti membri di una casta. Mostravamo disinteresse per l’accademismo, però trovavamo insensato vivere fuori dal nostro acquario e ci nuotavamo dentro con esclusività martellante. Eppure, a dispetto delle apparenze, non eravamo un «noi» compatto: in un luogo che snobba il resto del mondo il gioco più duro consisteva nello snobbarsi a vicenda. Gli iscritti erano pochi ma i professori ancora meno: la posta in gioco era alta e la maggioranza avrebbe pagato pegno dopo la laurea con la ridiscesa negli inferi, simboleggiati da un liceo urlante o da altre oscure professioni. Era presto perché la situazione fosse chiara ma già annusavo l’aria che tirava.


Berlino, 2000
«E tutto questo parlare del tempo», procede sicuro.
«Tutto il tempo speso parlando!» (Tutto questo tempo…, mi ripeto)
«All this talk of time?» Storce il naso.
«Be', ne stiamo spendendo parecchio». Non so dove ho imparato questa malizia, questo sorriso inedito, lo scintillio degli occhi. Ora sono certa che Andrea non vuole baciarmi, perché questo sarebbe stato il momento giusto. Non molla la penna e non solleva lo sguardo dalla sua stampata: «Talk is fine. Parlare è divertente».


Messina-Berlino, 1999
Prima che la mia scelta universitaria tradisse la libertà promessa rivelando il suo lato asfissiante, chiesi una borsa di studio per l’Erasmus e fui selezionata per trascorrere due semestri a Berlino. Prendevo le mie scelte in totale autogestione, la dipendenza economica non era un problema: mamma risarciva generosamente i «favori» che le elargivo, le code per le bollette e i ricorsi per le multe, papà mi spediva vaglia americani con puntualità inversamente proporzionale alle sue visite. Caddi quindi dalle nuvole quando scoprii di incontrare l’opposizione di entrambi.
La cartolina di papà raffigurava una pin-up in abiti da suffragetta e recitava:
«A Berlino fa talmente freddo che ti marciranno i denti, com’è accaduto a me nell’anno in cui è caduto il muro. Laureati in fretta e scegli la migliore specializzazione americana in quello che vuoi tu. Pago io. Ciao anche dalla piccola Rose». Mamma piangeva in cucina preparando, evento storico!, i miei piatti preferiti e chiedendosi perché tutti la abbandonassero.
Mi convinsi che dovevo partire in fretta.


Berlino, 2000
«Perché non possiamo recitare, fare una pantomima, o semplicemente chiudere gli occhi / e sognare sogni dolcissimi / rimanere qui con le ali ai piedi?» Mi accorgo di declamare tutti d’un fiato i successivi tre versi, e non vorrei ma sto veramente chiudendo gli occhi.
«Aspetta… recitare oppure fare una pantomima? Fai una scelta per pantomime. Sicura che in italiano sia corretto sognare sogni? Io preferirei fare sogni. E i sogni sono solo dolci, sweet, non dolcissimi».
È tristemente logico che lui non veda superlativi dove non ce ne sono.


Berlino, 1999
I miei alla fine avevano accettato di sostenermi, attribuendosi perfino i meriti della scelta: «Da quando sei nata sogno che tu ti trasferisca all’estero: qui il tuo talento è sprecato», aveva sospirato mamma consegnandomi un vaglia di incoraggiamento di papà.
Ero partita.
Con la scusa di aver bisogno di tempo per ambientarmi e prendere confidenza con la lingua, arrivai a Berlino all’inizio di settembre, oltre un mese prima dell’apertura del semestre. Il campus era semideserto, tirava un vento giallastro e per le strade vagavano gli ultimi, infernali pullman turistici dell’estate. Eppure l’atmosfera mi fulminò. Giravo con la macchina fotografica a tracolla, immortalando i cortili che si potevano sbirciare dai portoni, le reliquie di una città in trasformazione, le case abbandonate di Berlino Est, i primi palazzoni comunisti trasformati in centri sociali, atelier o locali alla moda. Nei vicoli dei quartieri al di là del muro scoprivo improbabili residui di appartamenti abbandonati o evacuati: vasche da bagno, credenze Biedermeier, bauli di vestiti, pittoresche valigie di cartone. I pezzi più pregiati finivano nei mercatini, rivenduti ai turisti a costi ancora abbordabili. Grazie a una conversazione orecchiata per caso scovai il Mauer Park, che non era ancora finito su nessuna guida. Vi trascorsi uno splendido pomeriggio di solitudine fotografando l’ultimo pezzo di muro, alla cui ombra giocavano una selva di bambini biondi.
Poi il campus si popolò di nuovi colleghi da ogni parte del mondo e l’anno accademico ebbe inizio, suggellato da una gigantesca festa di inaugurazione.


Berlino, 2000
«Paka, che ore sono? Mi sa che è tardi, vado, altrimenti non faccio in tempo per stasera».
«Non finiamo la nostra traduzione?»
«Finiremo domani. Ho promesso a Kate che sarei arrivato al locale un po’ prima degli altri per aiutarla a preparare tutto».
Accompagno Andrea alla porta. Avrei utilizzato le ultime ore del pomeriggio per tirarmi a lucido perché, ne ero certa, quella sera avrebbe capitolato.


Berlino, 1999
La serata di benvenuto all’università era stata entusiasmante. Mentre ci buttavamo sui divanetti ordinando da bere a buon mercato, esausti dopo aver ballato per ore, il dj urlava al microfono: «Herzlich willkommen, Erasmus! Und jetzt… die neue Ariem». Capii che stava pronunciando correttamente i Rem solo quando partì la voce di Michael Stipe.
Quella sera successero due cose: The Great Beyond diventò la mia colonna sonora, e mi innamorai di Andrea che veniva da Firenze, studiava fisica nucleare, suonava la batteria, non parlava tedesco e appariva sinceramente spaesato.


Berlino, 1999-2000
Pushing an elefant up the stair. La fatica nel liberarmi di un’infanzia che insieme a Salinger vorrei liquidare come schifa era un elefante che spingevo su per le scale, fermandomi di tanto in tanto a prendere fiato su un pianerottolo dove immancabilmente Andrea mi sorrideva e sembrava incoraggiarmi. La mia mente correva, ne sperimentavo il potere e le seduzioni: sfidavo senza sosta tutti gli esami in lingua, in pochi mesi avevo imparato detti e modi di dire dei Berliner suscitando l’invidia delle ragazze tedesche, perché venivo invitata a uscire anche al di fuori del nostro colorato gruppo multietnico. Ero diventata un’altra, o forse una qualche me stessa. C’era un nuovo pianeta nel sistema solare: se questo non era banding spoons, piegare cucchiaini! Avevo vent’anni e checché ne pensasse Nizan ero nel pieno splendore, il full bloom dei fiori. Rompevo gli schemi, ero una rivelazione, sfrondavo, distruggevo, frantumavo, il mio breaking through echeggiava per Berlino. O così mi sembrava. Non sapevo che un pianoforte stava per cadermi addosso.

Per festeggiare il suo ventiduesimo compleanno, Kate, un’inglesina che liquidavo come viziata ed egocentrica, aveva preso in affitto un locale a Prenzlauberg.
Quella sera ci arrivai imbellettata quel tanto che bastava perché il mio amato se ne accorgesse. Non starò invece a raccontare cosa capitò, come mi ritrovai per tutto il tempo a schivare le inopportune attenzioni di Howard l’australiano, o a fingere di ridere coinvolta in una sbronza con Natasha l’ucraina e Ferenc l’ungherese. Marguerite, l’acida francese, fu per la prima volta gentile, perfino materna. Sono insolite le situazioni in cui si accende il lampo silenzioso della solidarietà. Ciascuno dei nuovi amici srotolava il repertorio aneddotico del proprio paese di provenienza strappandomi risate sempre più sincere.
Riuscii a non guardare nemmeno una volta Andrea e Kate che si rotolavano appassionatamente su una poltroncina rifoderata della vecchia Berlino Est.


Berlino, 2008
La storia tra loro è continuata anche al rientro nelle rispettive patrie. Dopo essersi laureato Andrea ha raggiunto Kate a Londra e l’ha sposata. Le email collettive con cui a distanza di anni noi, vecchi compagni di avventura, ci aggiorniamo su come procedono le nostre vite, li descrivono come felici genitori di un bimbo che, a giudicare dalla foto, assomiglia più a lei che a lui.
Ai tempi dell’Erasmus invidiavo l’ottimo inglese di Andrea e per stargli accanto avevo proposto di esercitarmi con lui traducendo testi di canzoni. In cambio gli avrei dato una mano con il tedesco, per lui così ostile. Dopo la festa di Kate sul nostro progetto di scambio era comprensibilmente sceso il silenzio. Ciascuno si era tenuto la propria lingua, tanto è vero che lui ha sposato un’inglese e io un berlinese. Non fu onorato neanche l’appuntamento per completare The Great Beyond.

Questo pomeriggio nella casella di posta ho trovato una sua email. Curiosamente non l’ha mandata a tutto il gruppo ma soltanto a me. Mi chiede se sto bene, se il mio matrimonio è felice, se Berlino è rimasta la stessa. Aggiunge che con Kate non va più come sembra, ha bisogno di una vacanza da solo, prova nostalgia, anni fa non ha capito la Germania né tante cose che potevano accadere, forse per immaturità. Pianifica un weekend in cui sarebbe felice di incontrarmi. «E poi, io e te non avevamo una traduzione in sospeso?», conclude con un emoticon che si pretende ammiccante.
Spendo qualche pensiero sull’amplificazione e la distorsione operate dall’energia anarchica dei vent’anni e non posso fare a meno di sorriderci su. Non ho neanche bisogno di andare a recuperare in chissà quale scatolone dei ricordi quel foglio incompiuto. Digito velocemente la risposta, clicco su invia e chiudo un altro cerchio.

Andrea caro,
qui tutto bene. Berlino è sempre martoriata da scavi, trivelle, turisti, continui e forzati rimodernamenti ma oggi come allora sa svelare il suo incanto a chi ha gli occhi per vederlo.
Circa il nostro antico esercizio, all’epoca avevo ultimato da sola The Great Beyond. Quel pomeriggio eri scappato via nonostante mancasse semplicemente un verso: Non posso credere di essermi augurata che tu potessi vedere.
Sono certa che non avrai da ridire sulla traduzione.
Paka

THE GREAT BEYOND
R.E.M.

I’ve watched the stars fall silent from your eyes
All the sights that I have seen
I can’t believe that I believed I wished
That you could see
There’s a new planet in the solar system
There is nothing up my sleeve

I´m pushing an elephant up the stairs
I´m tossing up punchlines that were never there
Over my shoulder a piano falls
Crashing to the ground

And all this talk of time
Talk is fine
And I don’t want to stay around
Why can’t we pantomime, just close our eyes
And sleep sweet dreams
Being here with wings on our feet

I’m pushing an elephant up the stairs
I’m tossing up punchlines that were never there
Over my shoulder a piano falls
Crashing to the ground

I’m breaking through
I’m bending spoons
I’m keeping flowers in full bloom
I’m looking for answers from the great beyond

I want the hummingbirds, the dancing bears
Sweetest dreams of you
Look into the stars
Look into the moon

I’m pushing an elephant up the stairs
I’m tossing up punchlines that were never there
Over my shoulder a piano falls
Crashing to the ground

I’m breaking through
I’m bending spoons
I’m keeping flowers in full bloom
I’m looking for answers from the great beyond

I’m breaking through
I’m bending spoons
I’m keeping flowers in full bloom
I’m looking for answers from the great

I’m breaking through
I’m bending spoons
I’m keeping flowers in full bloom
I´m looking for answers from the great beyond

I’m breaking through
I’m bending spoons
I’m keeping flowers in full bloom
I’m looking for answers from the great



© 2010 Nadia Terranova