La Silvana dovrebbe arrivare a momenti. Non è mica oggi? Giovedì. Quand'è che ha detto che viene? Martedì, giovedì e sabato. O è lunedì, mercoledì e venerdì? Ha detto tutti i giorni pari. O i dispari? Ah, che testa. Adesso poi quando viene me lo segno.
Azzurra D'Agostino
Azzurra D’agostino ha pubblicato le raccolte poetiche D’in nci’un là (I Quaderni del Battello Ebbro, 2003) e Con ordine (Lietocolle, 2005). Suoi racconti e interventi critici sono stati pubblicati su varie riviste e antologie (tra cui Bloggirls, Mondadori, Best off 2006, minimum fax e In un gorgo di fedeltà, interviste a venti poeti italiani, Il ponte del sale 2007). È giornalista pubblicista e scrive per il teatro.Per Fernandel ha già pubblicato il racconto Essere il capitano.
Torri stava in punta di piedi appoggiato al tavolo, tutto proteso verso il muro su cui era appeso il calendario del Credito Cooperativo. Gli occhiali con la spessa montatura di plastica anni ’70 un po' calati sul naso, la testa ripiegata in modo da far passare lo sguardo attraverso le lenti. Son già le nove, mi sa che oggi non viene. Mi sa che viene domani.
Tolse il dito dal calendario, si scostò piano dal tavolo e ci girò intorno lentamente andando verso la sedia.
Appoggiò la mano sinistra sullo schienale e la destra sul bordo del tavolo e con un lieve vibrare dei gomiti e uno sbuffo si lasciò cadere sul cuscino sformato che copriva la seggiola di formica nocciola.
La piccola cucina stava nella penombra: il sole la mattina non passava davanti alla finestra ribaltabile in alto sopra il tinello.
Il vecchio frigo monoporta, solido resto del violento naufragio degli anni ’60, ronzava veemente con cambi di tono e riprese che l'orecchio di Torri non sentiva, più per l'abitudine che per la sordità.
Sotto il lampadario di plastica a campana alcune mosche cambiavano direzione a scatti regolari e improvvisi, disegnando invisibili forme geometriche nell'odore di sugo.
Maledette bestie schifose, disse tra i denti agguantando il manico di metallo sottile della paletta.
Quelle continuavano a girare, destra avanti sinistra indietro, per poi tornare allo stesso punto. Torri le guardava, la cima di plastica arancione forata della paletta che vibrava appena. Schifose maiale. Il corpo immobile e teso, gli occhi fissi sulle mosche, la paletta nella destra. Orcodisi, ringhiò dopo aver sferrato un colpo sul tavolo da cui la mosca si rialzò miracolata in volo.
Brutte bestie schifose. Rimase un bel po' con la paletta a mezz'aria, ma le mosche non smettevano di volare e lo sapeva che se non si appoggiavano non riusciva a prenderle.
Dal coperchio uno sbuffo più forte, e una piccola chiazza di pomodoro macchiò lo smalto bianco della stufa a gas. Diomémama il ragù. E facendosi forza con le mani nodose e grosse sullo schienale e sul tavolo si rimise in piedi in uno sforzo di muscoli nervature ossa e vene sfibrati dall'usura. Da qualche parte qualcosa scricchiolò, ma non ci fece caso.
Trascinò le pantofole di panno a scacchi per i tre piccoli passi che lo separavano dalla stufa. Sollevò il coperchio appoggiato al mestolo di legno messo di traverso sul bordo della pentola, e un vapore caldo odoroso di carne e battuto gli appannò gli occhiali. Prese il mestolo, girò il sugo, aggiunse dell'acqua dal bicchiere sulla credenza coperta di incerata fantasia e richiuse il coperchio stando attento a lasciare uno spiraglio.
Qualche passo di ciabatta e, superando la credenza, fu sotto il lavello. Alzò gli occhi alla finestra in alto sul muro. Con il fuoco acceso in cucina s'era fatto parecchio caldo. Prese il sottile bastone di plastica terminante in un uncino che teneva appoggiato al termosifone e lentamente, con fatica, lo sollevò oltre la testa.
L'uncino si avvicinava all'anello della chiusura della finestra, ma non lo infilzava. Boia d'una vacca. Il metallo del piccolo uncino contro il metallo dell'infisso, ma l'anello non entrava. Dovette riabbassare il bastone perché le braccia gli facevano male. Lo rialzò dopo essersi riposato un po'. Di nuovo metallo contro metallo, l'uncino che sfiora l'anello e lo manca. Bruttodio. Quando stava per riabbassare il bastone per la quarta volta l'uncino entrò e, tirando verso di sé il bastone, la finestra, cigolando appena, aprì la sua feritoia lasciando entrare un'aria vagamente odorosa di resina e muschio.
La cucina dava sul retro del complesso delle case popolari, un corridoio di cemento armato, quasi sempre all'ombra, lungo il quale erano disposti i vani per le bombole del gas. Dietro, un campo recintato di rete verde, che Pellicciano seminava a grano quattro anni sì e uno no. Al campo confinavano i piccoli orti dei pensionati, e oltre c’erano boschi di querce, castagni e pioppi. Quello era l'ultimo caseggiato del comune, e Torri, con la Nerina, era stato uno dei primi ad andarci a vivere, alla fine degli anni ’60.
Allora, tutto intorno, c'erano solo prati stopposi e fango, da cui spuntarono poi altri palazzi arancioni e ocra, coi terrazzini di cemento nudo e gli scoli dell'acqua in comune.
Dopo quarant'anni, se qualcuno era rimasto vivo e non si era trasferito, si poteva dire che quelli che stavano lì si conoscevano abbastanza da farsi dei favori. Lui per esempio aveva dato da lavorare il suo pezzetto di terra a Benni, che ci faceva l'orto. Non gli faceva pagare e Benni gli portava tutto: le zucchine, i pomodori, i cipollotti, le carote – che però gli venivano piccole e rinsecchite come mignoli – l'insalata e anche le uova perché ci teneva pure le galline.
Rimise l’uncino vicino al termosifone, in cui il bianco della vernice scrostata ai bordi si era trasformato in un polveroso color panna.
Le mosche non accennavano a cambiare rotta. Maiale e schifose. Scuotendo la testa si diresse in salotto. La pendola sopra il divano coperto dal telo stinto e pulito suonò le dieci. La Silvana non viene più, si vede che erano quegli altri giorni. Spazzare aveva già spazzato. Lo straccio lo aveva dato. C'era da spolverare.
Quanta polvere che cade tutti i giorni, è una cosa incredibile. Da dove verrà tutta questa polvere non si sa. Chissà se la gente se ne accorge, che vive tutto il tempo con la polvere da tutte le parti, anche addosso, e se la respira anche dentro.
Aprì il mobiletto di compensato e laminato marrone. Sul fondo c'erano dei panni ricavati da vecchie lenzuola stracciate e lo spruzzino.
Sollevò il telefono sul mobiletto, spruzzò, ci passò il panno e riappoggiò il telefono. Poi spostò tutti gli oggetti, per pulire meglio. A uno a uno li prese e li appoggiò sul divano. La cornice argentata delle nozze d'oro. Cinque passi piccoli e sciabattanti fino al divano e ritorno. La madonnina del santuario dell'Acero. Cinque passi. Ritorno. L'agenda rossa coi numeri, di quelle a scatto. Passi. Ritorno. Il portapenne a forma di pozzo comprato a Torre del Lago con la foto della costa scolorita e verdastra, la bomboniera del battesimo di Sandrino con il putto in una nuvola di azzurro, il portafiori col ramo d'ulivo benedetto secco da mesi. Spruzzò ben bene il piano del mobiletto e passò il panno, poi lo ripiegò e lo ripassò dalla parte asciutta per lucidare. Rimise tutti gli oggetti al loro posto e passò al tavolinetto di vetro davanti al divano. Levò la tovaglietta di pizzo, spolverò il piano, rimise la tovaglia. Ecco.
Dopo aver riposto panno e spruzzino tornò in cucina a mescolare il ragù. Dalla finestrella vide il cielo chiaro rigato da rondoni e fili della luce.
Il fornello fece un rumore sordo, una specie di scoppiettìo, e il fuoco si abbassò da solo. Vacca miseria la bombola. Tornò in salotto e prese l'agenda. Posizionò la levetta sulla B e schiacciò il tasto sul fondo. Si sistemò gli occhiali meglio sul naso e si ingobbì verso il mobile dopo che la scatoletta di pelle rossa fu aperta su fogli ingialliti pieni di scritte grandi, appunti a mano in una grafia incerta e intenta, da terza elementare. Berti. Biagio. Bombole: 053423580. Zero. Tirò su la cornetta e compose lo zero. Tornò sull'agenda. Cinque. Compose il cinque. Agenda. Tre, e compose il tre. E di nuovo dall'agenda al telefono, per tutti e nove i numeri.
Sì pronto.
C'era la voce di quella signorina che diceva cosa fare. Adesso anche quelli delle bombole ci mettono i dischi, al posto dei cristiani, pensa te.
Dopo due telefonate (agenda, numero, telefono, agenda) riuscì a capire che per fare un nuovo ordine bisognava premere tre e aspettare l'operatore.
Sì pronto sono Torri. Mi voleva una bombola. Viarepubblicacinquantanove. Torri. Quando venite? Ah. Ma non si può prima? No perché qui mi sa che lo finisco prima. Quando? Ah. Va bene, se non si può prima. Sì. Va bene, a rivederci.
Mise giù la cornetta con cautela, badando di metterla bene a posto.
Da qui a lunedì addio che t'amavo.
Tornò in cucina, mescolò il ragù e ci aggiunse un bel po' d'acqua.
Poi andò nel sottoscala, si chinò con molta fatica e rimase per un po' a guardare. Dove le aveva messe? Si rialzò aggrappandosi con tutte e due le mani alla ringhiera della scala e tornò in salotto. Guardò sotto il mobile attaccapanni. Eccole. Non è il suo posto ma eccole lì. Si aiutò col calzascarpe, seduto sul divano. Mise le ciabatte sotto l'attaccapanni al posto delle scarpe, prese il cappello di tela nocciola, il bastone e aprì la porta.
Fuori una bella giornata di sole. Dai piccoli giardini recintati accanto al suo, cespugli di ortensie e stendini carichi di panni, ronzio di vespe, alcuni bambini chini su un mucchio di sabbia, il latrato di un cane lontano, rumore di stoviglie dalle finestre aperte delle cucine.
Scese con molta cautela i gradini davanti a casa. Un piede sul gradino. L'altro. Un passo. Piede sul gradino. L'altro. Un passo. E così per tutta la scala. Quando arrivò in fondo si fermò appoggiandosi al bastone per riposare. Un bel respiro. Costole sterno e clavicole che si sollevano come l'ossatura di una barca alla deriva che prende un'onda più forte e poi si riassesta.
Va avanti a passetti piccoli e calibrati, appoggia il gommino del bastone – preso dalla gamba di una sedia vecchia – là dove intuisce il terreno più sicuro e piano.
Da una finestra si sporge l'Alda con un cuscino e lo spiumaccia.
Ohi, Torri!
Alda buongiorno.
Come andiamo?
E come vuole, si va da vecchi. Ha visto Benni?
Dev'essere nell'orto, aspetti che lo chiedo alla Maria.
E l'Alda era già sparita dalla finestra e ricomparsa sulla porta affacciata al ballatoio. Dal grembiule fiorato incrociato sul davanti spuntavano le braccia nude, bianche e molli. Bussò alla porta accanto alla sua e la Maria aprì. Torri non sentì cosa si dissero le donne, poi la Maria gli urlò che Benni era nell'orto. Fece un cenno di saluto sorridendo e si avviò.
Sullo stradello di ciottoli i suoi passi lenti e un po' strascicati alzavano appena un velo di polvere. Al bordo strada, come un piccolo letto di fiume in secca, si drizzavano giovani querce del tutto verdi. Intorno, i campi. Pellicciano aveva quell'anno messo giù a grano, che non più timido era già a forma di spiga. Con la Nerina ci veniva solo ogni tanto qui. Alla Nerina non piaceva di andare dalle galline, quelle brutte bestie, che cosa le tieni a fare, gli diceva, tutto un faticare per le volpi. Sei furbo te, a tenere le galline per le volpi e per le donnole, quelle schifose, gli diceva la Nerina.
La Nerina era così, era una donna pratica, che aveva un gusto tutto suo per la lamentazione, ci sguazzava un po' a lamentarsi. Anche quando non c'era motivo, lei riusciva sempre a vedere il lato brutto della cosa, il pelo nell'uovo. Non era mica facile, la Nerina. Però era come se non ci credesse davvero, a tutto quel lamentarsi. Che se diceva che una cosa era male, che andava male, in fondo allora non poteva più sorprenderla niente, non poteva andar peggio e quindi tutto quello che veniva, alla fine, era bene, era pur sempre meglio di come l'aveva pensata lei. Così se le galline facevano tante uova, e la volpe non veniva, e loro avevano uova per le frittate e carne per il brodo, lei lo guardava in faccia un po' stupita e diceva: t'è andata bene stavolta, va’ là, è un miracolo che non sia venuta la volpe. Ma è meglio che l'anno prossimo non le tieni, le galline, che viene di sicuro, in autunno le volpi c'hanno fame e lo sa il cielo cosa s'inventano per entrare nel recinto e tirar fuori le galline!
Ma poi andava sempre a finire che, dopo aver litigato un po', lui le dava ragione e faceva come gli pareva. Infatti le galline le avevano sempre avute. La Nerina vendeva anche le uova ai vicini, aveva un cestino rosa, di plastica, che una volta ci metteva la merenda per sua figlia a scuola, e lo riempiva di uova, metteva sopra quelle meno fresche e sotto quelle di giornata, e quando veniva la Filomena a comprarle, o la Guglia, le chiedevano Ma sono fresche? e lei Certo, che discorsi, e segnava su un vecchio notes il credito, duecento lire a uovo, che poi pagavano tutto insieme, cosa vuoi, che mi diano mille lire alla volta?
Era così la Nerina, cercava di cavarsela come poteva, ma non era mica cattiva, no, per niente, era la miseria che l'aveva resa sospettosa, era la vita che l'aveva rovinata.
Che ora, mica per dire, si sentono delle cose al televisore, ma questi qui non sanno cosa vuol dire la fame, non sanno niente di cosa vuol dire non averci da mangiare, ma per davvero. Io in guerra, non lo dico mai perché sembra, ma la guerra non hai mica voglia di parlarne, però mi ricordo che a me, a quei tempi lì, se trovavo le bucce delle patate ero contento, e le mangiavo e non erano neanche cattive.
Ma ora è tutto diverso, non è che si può fare il paragone, è capitato, e capita a uno come a un altro, dipende da come nasci. Certo che se nasci poveretto, ecco, la paura della fame ti rimane, è per quello che lui le galline le voleva, era come un'abitudine, l'orto, le galline, anche i conigli, se te c'hai la terra ti conviene comunque farci qualcosa, nessuno ti può venire a dirti niente, te un po' di carne così ce l'hai, un po' di verdure, di frutta. I pisellini li congelavano, e anche il resto, bastava farlo cotto, e avevano preso un frigo, un congelatore, che era sempre pieno, lo avevano messo di sopra, tra la camera piccola e il bagno, e anche d'inverno c'avevano sempre le verdure e i conigli congelati per farci un umidino ogni tanto.
Adesso, è pur vero, con quell'artrite era dura fare l'orto, tenere le bestie, però per fortuna c'era Benni, che lui gli lasciava la terra senza pagare e Benni tirava su tutta la roba per sé e gliene dava finché voleva.
Anche perché, non c'è da dire, ma da quando la Nerina non c'era più, era come, c'era come un buco, un silenzio, che quando lei c'era dicevi: magari ci fosse un po' di silenzio! che parla sempre, e se non parla guarda i romanzi alla televisione e c'è sempre un casino! Ma adesso quel silenzio lì, non era come lo voleva, non era un silenzio che dici Ora mi riposo, mi godo un po' il silenzio, e la casa tutta zitta, calma, solo per me, in silenzio, come quando la Nerina andava a far la spesa o a trovare la Filomena. No, adesso quel silenzio era più un mancamento, più che un silenzio era un dispiacere, perché il silenzio di prima era una pausa, una cosa provvisoria, che poi smette quando vuoi, puoi andare al bar, aspettare la Nerina, poi passa, e torni dentro la tua vita come sempre. Invece adesso, potevi anche ingannarti a far qualcosa, il televisore, due passi, trovare come mettere la bombola nuova quando finiva, e il ragù, e l'orto, ma poi, se volevi smettere, se volevi tornare come prima, che ci sarà stato casino, è vero, con la Nerina che ne aveva sempre una, e che questionava su tutto, ma però, come dire, come si fa a dire, come si fanno a dire certe cose? Che non è mica solo una questione di abitudine, no, non è solo che te sei abituato per non so quanti anni a averci una donna intorno, che ti stuzzica, è vero, ti rimbrotta, ma anche, come si spiega, come spiegarlo, ti custodisce, ti capisce, ti toglie un po' della tua miseria, divide con te tutto e ti fa, si potrebbe dire, sì, ti fa sentire meglio, non ti lascia da solo.
Che a star da soli, è un'altra cosa, si fa, certo, lo fanno in tanti, c'è anche chi ci sta tutta la vita, da solo, guarda il nipote di Libero, lui non s'è mai sposato, amici ce ne ha pochi, eppure lo vedi, sempre lì che fa le sue cose, che sembra anche contento. Ma mica tutti son capaci di esser così. C'è chi la sua donna, che poi è di più di una donna, è un po' la sua famiglia, è un po' tutto, ti dici due parole nel letto la sera, prima di dormire, cose di niente, solo sentire la voce, un'opinione su questo o su quello, un pensiero, ecco questo ti manca, se te sei sempre stato con una donna, una donna che gli vuoi bene, quando non c'è più è un bel disastro, ti casca il cuore, non sai più cosa aspettarti, sei lì che sei vecchio, da solo, cosa ti aspetti? Ti aspetti solo di morire, che è brutto da pensare, è un pensiero che uno non dovrebbe averci, soprattutto non lo deve mai dire, che poi tutti a consolarti Ma no! ma cosa dici! che sei ancora giovane! non ci devi neanche pensare! Eh, bravo, dici bene te, ma invece ci pensi, ti viene da pensarci per forza, quando hai visto che lei, che era anche più giovane, da un giorno all'altro... E il corpo è vero, non è mica come nei romanzi della televisione, il corpo ha la sua verità e stai pur sicuro che a quella ci devi credere, forse è una delle poche cose che è vera sempre, a ’sto mondo. E uno a settanta ottant'anni, cosa fa, fa finta di niente? Puoi far finta di niente te quando hai male a un braccio, a una gamba? Quando non ci senti neanche tanto più bene, cos'è che fai, finta di niente? Non si può mica, non ci si riesce mica, specie quando, non per lamentarsi, ma quando anche la sera, di notte, nel letto, sei lì da solo, e l'unica cosa che c'è in casa è l'odore del cavolo che hai cucinato, e fuori il mondo, un buio, i gatti che si lamentano, come puoi stare? La sera, io credo che la sera sia il momento più brutto di tutti, ti vien su una malinconia, la sera, da solo, che non ci si crede, i pensieri che si fanno, un po' ti ricordi delle cose, un po' ti spaventi, poi ti fai delle domande, ti chiedi ma chissà dov'è finita tutta quella roba, non solo la gioventù e le cose belle, tutto, chissà cos'è, dove sarà mai, anche la guerra, la fame, chissà perché uno le patisce, per poi finire, così, un bel momento, a stare al buio da solo e accorgersi che son tutti ricordi, son cose che vengono via con te, via dove poi? Non si sa neanche quello, non si sa niente, anche la Nerina, chissà dove sarà, lei coi suoi ricordi, quando era piccola che badava le pecore, e poi dopo, da ragazza, a servizio a Follonica, che raccontava di un marinaio, ma io non ero geloso, sapevo che tanto era tutto passato, che lei era brava, lamentosa ma brava, una donna seria, ma adesso, chissà se è tutto proprio perso, se quel marinaio, la Nerina, i campi dove andava, le balere, tutti quei matrimoni dove sono stato, i cani che ho avuto, le case che ho imbiancato, le facce che ho visto, i musi dei daini a caccia, i funghi che ho raccolto e poi cucinato e poi mangiato, i figli, i gigli del giardino della Miranda, la Miranda, le cugine del mare, la Filomena, la gente negli ospedali, tutti quei bambini nell'aia quand'ero piccolo, mio padre, tutto, tutta una vita, chissà dov'è, chissà dov'è che andrà a finire?
Io una bombola ce l'ho, ce l'ho sempre di scorta, nel garage.
Allora me la dai te?
Sì sì te la porto dopo che vengo via dall'orto.
Va bene, così poi te la ridò quando viene quello delle bombole, che gliene ordino un'altra.
Sì ma non c'è mica fretta! Te la porto dopo, che vengo a darti anche i pomodori, ce ne sono di quei grossi quest'anno! Vengon su bene, belli grossi, e anche i cetrioli.
Allora grazie.
Benni alzò le spalle.
Io allora vado che c'ho su il ragù.
A dopo,
A dopo,
e grazie.
Benni, col gomito appoggiato alla pala, la camicia a scacchi rossi un po' aperta e il cappello di paglia, guardò Torri allontanarsi coi passi piccoli di uno che è troppo leggero per non volare via. Scosse un po' la testa, sputò lo stuzzicadenti che teneva all'angolo della bocca, e ricominciò a spalare. ■
© 2010 Azzurra D'Agostino