Quella notte mi ero risvegliata di soprassalto con l’impressione che qualcosa non andasse. Carolina, sdraiata nel letto accanto al mio, respirava in un modo più strano del solito facendomi pensare a Barù, il cane dei nonni. Ero rimasta a osservarla nella penombra della stanza fino a quando non aveva avuto un sussulto, uno spasmo veloce e scoordinato e poi non avevo più sentito il suo respiro. Allora mi ero messa a gridare.
Annarosa Pederzoli
Sono nata nel 1971 a Ravenna e vivo in campagna, dove coltivo le mie grandi passioni: la lettura, la scrittura e i mercatini delle pulci. Questo racconto è stato scritto di getto durante una delle mie notti insonni, con il desiderio di raccontare la fascinazione per gli “amori difettosi” e l’attrazione verso persone, situazioni e storie che sfuggono agli ideali comuni di bellezza e di salute.
Annarosa Pederzoli per Fernandel ha pubblicato i romanzi Amiche (2004) e I papaveri di Vania (2010), oltre a diversi racconti.
Annarosa Pederzoli per Fernandel ha pubblicato i romanzi Amiche (2004) e I papaveri di Vania (2010), oltre a diversi racconti.
Solo molto tempo dopo ho capito di non averlo fatto per davvero. Nessuno me l’ha detto, l’ho intuito da sola, perché se avessi chiamato la mamma forse Carolina non sarebbe morta.
Migliaia di volte ho rivissuto in maniera frammentaria questo episodio, ma una notte il mio inconscio ha deciso di proiettarlo per intero e ho sognato tutta la scena, così mi sono resa conto che non era stato lo choc a bloccarmi la voce, o non soltanto quello, ero stata io a decidere volontariamente di rimanere in silenzio, perché di Carolina non ne potevo più.
Avere una sorella come lei era faticosissimo. Mi sentivo uno schifo. L’amore e l’odio erano tutt’uno e lottavano ogni istante senza darmi tregua. Quel braccio piccolino appiccicato al corpo, con la manina che non stava mai ferma, come per recuperare con il movimento l’incapacità di fare le cose, mi perseguitava, così come il risucchio dell’aria verso i suoi polmoni accartocciati, simile al suono del boccaglio di un’aspirapolvere.
Il braccio sinistro a Carolina gliel’ho deformato io, mentre eravamo nella pancia della mamma: la schiacciavo, cercavo di soffocarla, di prevaricarla, di rimpicciolirla.
Simone se n’è appena andato e già la mia mente naufraga nel mare nero.
Non permetto mai a un ragazzo di dormire da me; per la precisione non ho mai dormito con nessuno a parte Carolina, e di certo non lo farei con uno dei ragazzi che mi porto a letto. Sì, parlo di sesso, perché non mi sono mai innamorata nel modo in cui lo raccontano le altre ragazze: «Perché ha visualizzato il messaggio ma non mi ha ancora risposto? Oddio quanto mi manca, non posso vivere senza di lui! Se mi lascia mi ammazzo, giuro che mi ammazzo!»
Quando ho visto Michele ho deciso che sarebbe stato lui il primo con cui fare sesso. Non l’ho scelto perché era un figo o perché aveva uno sguardo da togliere il fiato, tutt’altro: l’ho voluto perché aveva una macchia violacea enorme che gli ricopriva la guancia sinistra e gli scendeva lungo il collo fino alla clavicola; in seguito ho scoperto che arrivava fin quasi allo stomaco. A scuola si raccontavano sempre le solite stronzate: che sua madre aveva avuto voglia di fragole mentre era incinta, oppure che era il segno del diavolo; le ragazze lo giudicavano orripilante e non se lo filava nessuna, tranne la sottoscritta. Per qualche giorno gli ho fatto la posta accanto al bagno dei maschi e un sabato pomeriggio, quando i miei non erano in casa, l’abbiamo fatto nel mio letto. È stato esattamente come me l’ero immaginato: niente di speciale, poiché eravamo entrambi impacciati, ma ciò che desideravo era fare l’esperienza in prima persona, perché ero stanca dei racconti delle altre, con versioni contraddittorie che andavano dal disgusto al paradiso.
Mi rosicchio il labbro inferiore fino a sentire la pellicina staccarsi e il sapore metallico del sangue sulla lingua, e maledico la mia insonnia.
Non mi piace andare a casa dei ragazzi che frequento, anche se non li ospito a dormire preferisco che vengano loro da me, perché non desidero entrare nei luoghi che abitano, negli spazi delle loro famiglie, delle loro vite, tanto non sono interessata a una storia, altrimenti non li sceglierei così: “difettosi”. Forse ne cercherei uno bello o almeno accettabile. Invece mi sento attratta dalle stranezze, soprattutto fisiche.
Sandro, ad esempio, aveva un’ampia cicatrice sul braccio destro, con la pelle tutta rattrappita a causa di un’ustione procurata per un incidente domestico. Mentre la madre scolava la pasta le era scivolata la pentola e Sandro era stato travolto da quell’intruglio di pasta e acqua bollente. Poi sono uscita con Rudy, che aveva la gamba sinistra più corta di cinque centimetri, camminava zoppicando e indossava una scarpa nera con la suola rialzata simile a una pantofola di quelle che indossano le vecchiette, motivo per cui i nostri compagni di scuola lo prendevano in giro. Non era male ed era anche molto gentile, ma il ragazzo a cui mi sono affezionata di più è Nicola.
Lui ha sfiorato una corda più profonda e pericolosa degli altri. Da bambino gli avevano diagnosticato un tumore alla mascella. Oltre alle operazioni chirurgiche e alla chemioterapia, era stato sottoposto a numerosi interventi di ricostruzione del viso, con innesti della sua stessa pelle prelevati da altre parti del corpo. Nicola veniva avvicinato da pochissimi studenti, spesso per compassione o perché sollecitati dai professori.
Con lui forse ho rischiato di innamorarmi. Eravamo al quarto anno di liceo quando si è trasferito nella nostra scuola. Nicola non abbassava lo sguardo davanti a nessuno, non si vergognava e non si nascondeva: per convincerlo a venire a casa mia ci ho messo parecchio… se la tirava, insomma. Farlo con lui è stato bello, più bello che con gli altri, perché non era timido e sapeva come regalarmi piacere, sembrava conoscere bene il corpo femminile, toccava i punti giusti.
Quando penso a Nicola mi prende un malessere, un’agitazione che non riesco a controllare, e vorrei scorticarmi il viso con le unghie. Forse è stato un bene che, dopo il liceo, se ne sia andato a studiare negli States. Era considerato un genio, conosceva e spiegava la matematica come se fosse un semplice alfabeto, ma non solo quella, qualsiasi cosa gli riusciva facile. Adesso vive nella mitica Silicon Valley. Siamo in contatto su Facebook, ma cerco di non scrivergli spesso, anche se sbircio sempre il suo profilo.
Accendo una Winston Blue. Non è che sia una fumatrice abituale, però tengo un pacchetto a portata di mano per i casi come questo, quando devo prendermi una pausa dai miei pensieri; allora mi concedo una sigaretta oppure una vodka. Ma in questo momento non ho voglia di alzarmi e lasciare le lenzuola tiepide per andare in cucina e vuotarmi mezzo bicchiere di Smirnoff, la stessa vodka che beveva di tanto in tanto papà, verso mezzanotte, forse pensando di non essere visto da nessuno.
Sono sicura che se mi guardassi allo specchio vedrei le mie iridi del colore dell’ambra; quando stavo con Nico, e tuttora semplicemente se lo penso, gli occhi da nocciola mi diventano ambrati. È lui che me lo ha fatto notare dopo la prima volta che abbiamo fatto sesso.
Nicola è il mio punto interrogativo, poiché gli altri casini in qualche modo li ho sistemati. Sono riuscita a trovare un senso agli eventi assurdi della mia vita, alle mie scelte e a quelle che non ho fatto, ai sentimenti che provo e a quelli che non riesco a vivere.
L’infanzia, mia e di Carolina, era scandita da ritmi e abitudini immutabili. La mamma e la nonna erano convinte che i bambini debbano avere delle regole che ne determinino la quotidianità. Ci svegliavamo tutte le mattine alla stessa ora, ad esclusione della domenica in cui potevamo dormire un’ora in più, poi facevamo colazione con latte e i Pan di stelle, la scuola a tempo pieno, un’ora al parco a giocare, i compiti, la cena, mezz’ora di tv, e alle nove e trenta in punto a letto con il lumino azzurro acceso per Carolina. Il sabato mattina in programma c’era il bagno, al pomeriggio il catechismo, la passeggiata in centro e la sera qualche volta il cinema. La domenica andavamo in chiesa (ma credo che quest’abitudine venisse rispettata solo perché don Marcello minacciava di non ammettere alla prima comunione i bambini che non partecipavano alla messa), poi il pranzo dai nonni materni o paterni e il pomeriggio a giocare oppure a disegnare, sempre noi due assieme, Carolina e io.
La mamma al di fuori dell’orario scolastico non ci lasciava volentieri con gli altri bambini, temeva che prendessero in giro o molestassero Carolina. Non ha mai creduto che potessero volerle bene per davvero, anche se a parole cercava di convincerci che eravamo come tutte le altre bambine, belle e brave; e io non mi spiegavo perché parlasse di noi due sempre come se fossimo una cosa sola, visto che io non avevo nessun “problema”. Ma poi rimuginandoci sopra ho capito che per lei eravamo davvero identiche, sorelle gemelle, anche se tuttora non so se ci vedesse entrambe “difettose” oppure sane.
Il sabato era il giorno peggiore, perché dopo il catechismo andavamo a passeggiare in centro, che era sempre affollato di persone che venivano anche dalle periferie. Gli altri bambini, quando ci vedevano, si aggrappavano alla mano dei genitori, quelli più grandi ci indicavano, ridacchiavano e ci facevano il verso, gli uomini fingevano di non vederci e le signore invece si fermavano per dimostrare solidarietà alla mamma: «Che peccato, due bambine così belle, e proprio uguali! Poverine, che dispiacere che dev’essere! Ma come vi chiamate?»
Mia sorella tutta impettita rispondeva: «Io mi chiamo Carolina e lei è mia sorella Stefania», scandendo per bene tutte le parole, mentre agitava senza sosta la mano deforme.
Io restavo immobile e muta, senza comprendere come facesse lei a non offendersi, a non capire che la compativano, ma Carolina era così: assolutamente pura e felice. La mamma era sempre sull’orlo del pianto e per fortuna papà non c’era quasi mai, perché lui invece si arrabbiava sia con quelle signore che con la mamma e noi due. Crescendo ho intuito che forse ce l’aveva con se stesso, prima di tutto per non aver fatto due bambine perfette e poi per non essere riuscito a salvare Carolina.
Quella vita per me era uno strazio, dalla mattina quando ci alzavamo fino alla sera quando finalmente Carolina si addormentava e la penombra cancellava quasi del tutto la realtà. Anche da bambina dormivo pochissimo, perché consideravo le ore della notte il mio spazio segreto. Fantasticavo su come sarebbe stato vivere senza di lei, oppure con una sorella “normale”. Sognavo di andare in piscina o a ginnastica ritmica come tutte le altre, ma i miei non mi hanno fatto praticare nessuno sport, poiché a loro parere per non turbare Carolina dovevamo vivere nello stesso modo.
«Stefania, devi capire», me lo sono sentita ripetere decine di volte, ma non ho mai capito.
Di rado ci permettevano di partecipare alla festa di compleanno di una compagna, ma quelle feste non mi interessavano. In realtà ciò che mi mancava di più erano i momenti esclusivamente miei, che appartenessero solo a Stefania e non alle “due sorelle poverine!”. Certe volte sognavo che la mamma la dimenticasse da qualche parte e allora mi sentivo ancora peggio, perché invece Carolina mi adorava, era affettuosissima, mi abbracciava, mi accarezzava con la mano sana e mi diceva che non avrebbe voluto bene a nessuno come a me.
Mai nessun altro mi ha detto una cosa simile: nessun ragazzo o amica e neppure i miei genitori e i nonni, neanche Nicola; solo Carolina e io l’ho lasciata morire, non ho fatto niente, non ho detto una parola. Sono rimasta seduta nel letto a guardarla, inchiodata da un’incredulità fatta di terrore e sollievo allo stesso tempo.
Ho capito che è questo il motivo per cui scelgo ragazzi difettosi, è una forma di “espiazione”, un modo per punirmi sperando allo stesso tempo in una redenzione, anche se so che non ci sarà mai salvezza per “quest'altra” con cui convivo, in grado di odiare forte e incapace di salvare la vita a una sorella e forse anche a se stessa.
Bip! Arriva una notifica su Messenger. Deve essere Simone che mi avvisa che è arrivato a casa e mi augura la buonanotte.
Guardo svogliatamente il cellulare, ma mi accorgo che non è lui, il messaggio proviene dalla Silicon Valley. Non so che fare, se leggerlo oppure no.
Aspiro il fumo e lo soffio cercando, senza successo, di normalizzare il battito del mio cuore.
“Stefy, sei sveglia? Volevo dirti che ho iniziato un corso di russo. Lo so che in Italia è notte, ma mi è preso un non so che, una smania, insomma ti stavo pensando, non ho resistito e ti ho scritto. Spero di non averti svegliata, ma se non sei cambiata dovresti ancora dormire poco”.
No, non sono cambiata e nemmeno lui.
In passato Nicola è riuscito per qualche istante a farmi risalire a galla dal mio mare nero, per poi lasciarmi sprofondare ancora più giù. Non di sua volontà, sia chiaro, lui non mi ha fatto nulla, il problema è quello che ho intuito standogli vicina, i sentimenti che sentivo raschiare dentro di me; come se fossero seppelliti sotto quintali di macerie e cercassero di scavare un varco per liberarsi.
“Stefy, il vero motivo per cui ti sto scrivendo è che domenica tornerò in Italia per qualche giorno. Ti ricordi quando i medici mi dissero che mi consideravano guarito, ma che il futuro era un’incognita? E noi abbiamo festeggiato con una bella sbronza al mare bevendo Waikiki? Be’, forse non ero proprio guarito, oppure è qualcos’altro o solo stanchezza, insomma dovrò fare degli esami, ma prima di entrare in ospedale a San Francisco, voglio tornare a casa, vedere i miei nonni e vorrei vedere anche te”.
Le mani mi tremano così tanto che non riesco quasi a reggere il telefono. Non vedo più niente perché sto piangendo, e non per l’emozione, ma per il terrore.
Mi sono sempre chiesta come Nico riuscisse a convivere con quella prognosi incerta, qualcosa che suonava come: «Probabile guarigione completa». Ma lui l’ha sempre considerata una buona sentenza, forse perché quello che aveva passato era ancora più tremendo di un futuro imprevedibile. La malattia, gli ospedali, gli interventi chirurgici, il dolore, le terapie, e soprattutto la distruzione del suo viso e la ricostruzione di un volto simile a un collage di pelle umana. Il conseguente isolamento, il disprezzo della gente, gli sguardi disgustati dei compagni di scuola.
Per la seconda volta nella mia vita vorrei non essere mai nata, oppure essere morta al posto di Carolina.
Dopo diverso tempo riesco a digitare una frase idiota: “Cosa ti è successo?”, gli chiedo.
“Ma niente dai, ho avuto un problema di coordinazione andando in bicicletta: stavo per cadere e quando ho riprovato a pedalare non ci sono riuscito; potrebbe essere qualsiasi cosa oppure niente, non ci voglio pensare adesso. Ho voglia di rivederti, Stefy, sono due anni che non ci incontriamo e che non facciamo… sesso, come lo definisci tu”.
È sempre stato diretto nell’esprimersi, e la cosa mi sconvolge ancora, perché io invece non parlo apertamente con nessuno e mi sono confidata pochissimo anche con lui, ma credo che Nico abbia intuito tutto di me, ogni pensiero, ogni emozione, persino le mie assurde manie.
Non so cosa rispondergli.
In questo istante più di ogni altra cosa desidererei rivederlo, ma fra due settimane mi sentirò ancora di farlo? Di guardarlo dritto negli occhi senza provare pietà, compassione, senza crollare?
Dopo la sua partenza e la fine del liceo mi sono dovuta inventare una vita, ho dovuto fare delle scelte. I miei genitori desideravano che frequentassi un corso di laurea, ma io non avrei saputo cosa scegliere e ho preferito dare un taglio netto. Ho iniziato con qualche lavoro: ho distribuito la pubblicità, ho fatto la commessa in un negozio di calzature, poi ho cominciato a fare la postina part-time: tre mesi sì e tre no, e nei periodi di stacco ho lavorato come barista in un locale vicino a casa, una latteria di quelle di una volta, dove le vecchiette vengono a bere il caffè, a comprare lo stracchino e a fare quattro chiacchiere. Abito da sola in un minuscolo appartamento in affitto della prima periferia e mi sono lasciata alle spalle le pseudo amicizie dei tempi della scuola. Sono riuscita a crearmi una specie di equilibrio, e l’idea di mettere in pericolo questa tranquilla quotidianità per rivedere Nicola mi preoccupa parecchio. Le mie due attività lavorative mi danno la possibilità di incontrare numerose persone, di conoscere ragazzi e uomini, e di scegliere quelli che solleticano di più il mio interesse.
Da alcuni mesi frequento Simone. Lui si è tranciato l’anulare e il mignolo della mano sinistra al cantiere navale. La nostra non è proprio una storia, non ci siamo scambiati nessuna promessa e continuiamo a vederci perché ne abbiamo voglia, senza prendere impegni per l'incontro successivo. Ogni tanto ci sentiamo e decidiamo se vederci oppure no. Forse lui si è affezionato un po’ di più, perché mi scrive quasi tutti i giorni per darmi il buongiorno o la buonanotte, ma non mi ha mai parlato di sentimenti e finora non se l’è presa se non vado a casa sua o se non voglio che resti a dormire con me.
Ma so che sto bluffando. Il motivo per cui non sono sicura di voler rivedere Nico è la paura. Se adesso accettassi di incontrarlo e poi lui scoprisse di essere di nuovo ammalato, credo che crollerei.
Due anni fa, quando ci siamo rivisti, ho rischiato di rompermi in mille pezzi. Era tornato in Italia per Natale e, dopo due anni di assenza, pensavo che l’attrazione per lui fosse diminuita, invece nell’istante in cui i nostri sguardi si sono incrociati ho capito che mi piaceva ancora e che desideravo fare sesso con lui e sentire le sue mani sul mio corpo.
Sapevo che a gennaio sarebbe ritornato negli States, me lo ripetevo tutti i giorni, ma un po’ l’euforia del Natale, un po’ la magia di poter stare insieme ogni giorno, insomma speravo di essere preparata a quel nuovo distacco, invece è stata più dura della prima volta, perché mi sono resa conto che nessuno mi conosce bene come lui, e che l’intimità e la sintonia che ci sono tra di noi sono speciali.
Forse mi sento così legata a lui perché mi ricorda Carolina. Proprio come lei Nicola non ha paura del contatto fisico, mi abbraccia, mi accarezza, mi tiene per mano. È una persona sincera, ottimista e sicura di sé.
Questo inutile girotondo di pensieri ed emozioni mi ha sfinita e vorrei cedere al sonno. Invece continuo a guardare la parete di fronte al letto, con gli occhi che sembrano di sale e il cuore che martella. E mentre fisso il caos del Giardino delle delizie, il bizzarro trittico di Hieronymus Bosch, mi rendo conto con una lucidità che mi terrorizza e allo stesso tempo mi rende folle di felicità, che amo Nicola. E, sono certa, che se quella notte avessi urlato per davvero e Carolina si fosse salvata, loro due sarebbero diventati grandi amici.
© 2017 Annarosa Pederzoli