La copertina del numero 61 Annarosa Pederzoli, Il mattatoio dei conigli



La prima volta che ho incontrato Ulisse, ha capito subito chi fossi. Quasi ce l’avessi scritto in faccia. Erano le due del pomeriggio, ma sembrava già sera. Stavo facendo colazione nel bar di fronte all’ospedale. Avevo fatto il turno di notte, però, essendo nuova, avevo accettato di sostituire una collega. Ulisse chiacchierava con la barista e mi ha gettato solo un’occhiata rapida, ma precisa.
Annarosa Pederzoli
Annarosa Pederzoli ha pubblicato i romanzi Amiche (2004) e I papaveri di Vania (2010), oltre a diversi racconti.

Quando sono uscita mi ha seguita, ha acceso una paglia ed è rimasto a fissarmi mentre attraversavo la strada. Sentivo il suo sguardo scivolare sui capelli, lungo la schiena e scendere fino agli stivali neri; più di dieci centimetri di tacco, sottile come una sigaretta Cartier. Tacchi inadatti per i ciottoli sconnessi di queste strade, ma non posso farne a meno.
Di solito accade il contrario: ci si sposta verso la città. Invece io sono partita per il nulla. Chilometri di niente, orizzonte piatto fatto di foschia, campi dissodati e casolari abbandonati.
L’ospedale è un piccolo edificio dipinto di giallo. Sui muri esterni ci sono grosse macchie di umidità e l’intonaco si sbriciola a vista d’occhio, ma sembra che nessuno ci faccia caso. C’è il pronto soccorso, gli ambulatori e un solo reparto: la geriatria. Qui i vecchi del paese vengono a morire, accuditi dalle badanti. Lungo i corridoi si sente parlare in dialetto o in rumeno. Nonostante il divieto, le ragazze fumano affacciate alle finestre che danno sul retro, dove ci sono i cassonetti per le immondizie. È un tacito accordo, in fondo loro svolgono una parte del nostro lavoro.

Ulisse è uno di quegli uomini che fumano dopo aver scopato. Ognuno ha la sua mania. C’è chi si accende una sigaretta o controlla il cellulare, chi invece si addormenta. Chi va in bagno oppure indossa gli slip, come se all’improvviso si vergognasse.
Gli scatto una foto al pene. Non ho mai incontrato un uomo che rifiutasse di farsi fotografare, passato il primo momento d’imbarazzato stupore. Di solito trovano la cosa divertente. Non sono una collezionista, è più un gioco, un vezzo.
«A cosa pensi?»
«A niente».
Si dice sempre così, anche se non è vero. Infatti sto pensando a quel pomeriggio di novembre. Pioveva, proprio come oggi. La mamma era andata a fare la spesa e mio fratello era in salotto a guardare la tv.
Angelo era il mio primo ragazzo. Aveva un anno in più, ma stavamo in classe insieme perché era stato bocciato, e usavamo i compiti come scusa per vederci senza dover dare troppe spiegazioni. Era magrissimo, con la pelle color del latte e i capelli lisci che gli coprivano gli occhi scuri. Teneva le unghie lunghe nella mano destra, per suonare meglio la chitarra; quelle della sinistra, invece, le rosicchiava fino a farle sanguinare. Quel contrasto mi dava i brividi. Da un lato mi faceva quasi schifo, dall’altro mi attirava. Quando mi toccava era come se ci fossero due persone racchiuse in lui. E lo stesso era quando ci baciavamo; a volte era molto dolce, altre prepotente.
Invece di studiare, siamo finiti a letto. Mentre mi toglieva gli slip, tremavo. Sentivo il cuore battere sempre più forte, rimbombarmi nelle orecchie e poi occupare tutto lo spazio attorno. Avevo paura, ma non mi volevo fermare. Dopo la morte di papà avevo bisogno di qualcosa di talmente forte da annullare i pensieri. Ho sentito un bruciore intenso, l’impressione che qualcosa si spaccasse, poi il sangue caldo quasi rassicurante, che mi scendeva sulle gambe. Mi veniva da piangere e nello stesso tempo provavo anche un senso di sollievo, di stupida euforia. Eravamo entrambi sporchi, così pure le lenzuola di flanella. Intuivo che quello era un punto di non ritorno. Non sapevo cosa fare, non riuscivo a muovermi, né a parlare. Speravo che il tempo si fosse fermato e che non riprendesse mai più a scorrere.
Così ho avuto l’idea di scattare una foto con la polaroid. Mia madre ha sempre avuto una fissazione per le fotografie. Metteva in posa me e mio fratello, e davanti alle nostre proteste diceva che quello era l’unico modo per imbrogliare il tempo. Dopo il funerale, restava per ore a sfogliare gli album, arrabbiata di non aver fotografato papà più spesso. Lui era restio a farlo, temeva che davvero un pezzetto della sua anima sarebbe rimasto intrappolato sulla carta, come raccontano certe credenze. Anch’io detesto farmi fotografare. Vedere la mia immagine mi spaventa, è come se parlasse. Quando sono arrabbiata, ad esempio, mi trucco gli occhi di nero, molto pesante; se sono in cerca di un uomo, dipingo le unghie di rosso ciliegia; se sono triste torturo il labbro inferiore finché inizia a sanguinare.

«Ti va di uscire?»
«No».
È il giorno perfetto per restare a letto a scopare. Il vento sbatte la pioggia sui vetri, senza ritegno. Come piace a me. Prendo la mano di Ulisse. È una mano forte, da lavoratore. Le unghie sono tagliate con cura, ma sporche di rosso. È sangue rappreso, che gli è penetrato anche nelle pieghe della pelle cambiandone persino il colore, da rosa a giallo-arancio. Sangue di coniglio.
Per arrivare in paese si attraversa un ponte di cemento e acciaio sopra il fiume, si fa una rotatoria e la prima casa che s’incontra è quella della famiglia di Ulisse. Una villa bianca circondata da un gran giardino; ci abitano tutti assieme. Nascosto dietro una siepe c’è un capannone: il mattatoio dei conigli. È così che lo chiamo. Ogni mattina si vedono i camion entrare e uscire dal cancello laterale. Al momento dell’arrivo trasportano gabbie di plastica stipate di conigli; in uscita, invece, sono vuoti.
Quando ho osservato da vicino le sue mani sono rimasta senza parole. Certe notti mi sveglio di soprassalto con l’immagine di Ulisse che strappa la pelliccia dal corpo degli animaletti, con un colpo secco, deciso. Il grembiule di tela cerata schizzato di sangue. I cadaveri ammassati sopra un tavolo di metallo, fatti a pezzi e sbattuti nel ghiaccio, le interiora gettate in un sacco nero.

Le storie normali non mi coinvolgono. E non mi sento attratta da un uomo per la bellezza o la simpatia. Sono i dettagli che mi intrigano. Una cicatrice, un tatuaggio, un orecchino troppo chiassoso, un tic. Oppure una crepa nella personalità o certe ossessioni.
Anche con i luoghi ho lo stesso rapporto. La mia memoria non fotografa cartoline.
La prima sera che Ulisse e io siamo venuti qui, ho capito che era il posto adatto. È un vecchio albergo sulla provinciale, con l’insegna al neon che non funziona più: Motel Emilia. Le camere sono grandi e fredde, con mobili dozzinali e i materassi infossati al centro. Nel bagno i sanitari sono color nocciola e ci sono ancora le saponette. Eppure so che questa stanza la porterò con me. Ha il giusto grado di squallore.
Sono stata in altri hotel, più belli, più costosi, ma non ho conservato il ricordo di nessuna di quelle camere. Nella mia mente sono tutte uguali, arredamenti moderni e biancheria dall’odore di lavanderia industriale.
La domenica è il momento migliore: l’albergo è deserto, perché non ci sono i camionisti di passaggio, e Ulisse è al culmine del nervosismo. Il rito del pranzo settimanale lo fa incazzare, perché deve incontrare l’ex moglie. La famiglia è onnipresente nella sua vita. I parenti non gli perdonano la separazione, soprattutto perché i figli se ne sono andati a vivere con la madre. Il sesso è la sua valvola di sfogo e lo capisco.

Con la malattia di papà, mio fratello è cambiato. Mamma e io eravamo prese dai nostri pensieri e non ci siamo occupate abbastanza di lui, il più piccolo e vulnerabile. Un po’ alla volta ha perso interesse per tutto, la scuola, gli amici, il calcio. Non riusciva a dormire, si svegliava per ogni rumore, soffriva di mal di testa, aveva esplosioni improvvise di rabbia. Non sapevo come aiutarlo, mi sentivo impotente. È iniziata così. Mangiavo e vomitavo di nascosto. Avevo un’amica che lo faceva. L’avevo vista parecchie volte cacciarsi le dita in gola, lavarsi i denti, mettere il collirio per attenuare il rossore. Ero rimasta affascinata dalla sua abilità, dalla sicurezza. Teneva nello zaino una pochette colorata con dentro l’occorrente: le salviette, lo spazzolino e il dentifricio, il collirio e le gomme da masticare.
È stato allora che mi sono innamorata di Angelo. Ne avevo bisogno per sopravvivere. Lui occupava il mio tempo, lo spazio e si prendeva cura di me. Non mi faceva sentire in colpa quando vomitavo; mi accompagnava in bagno, mi reggeva la testa, mi metteva le gocce negli occhi.

«Io devo andare, vieni anche tu o rimani?»
Guardo Ulisse indossare i jeans, il maglione verde militare, gli stivali sporchi di fango, il giubbotto. È un uomo pratico, schietto. Forse proprio per la sua semplicità riesce a leggere dentro di me, anche quando non dico niente.
«Preferisco restare ancora un po’».
«Okay, ti faccio uno squillo più tardi. Ciao».
«Ciao».

Lo immagino scendere le scale, pagare il conto, uscire sotto la pioggia e accendere una paglia. La gente di qui ha un rapporto diverso con il denaro. Da dove vengo io si possono spendere centinaia di euro in una sera: aperitivo, cena, discoteca. Qui non c’è neppure il cinema, però ci sono due pub e la sala giochi. E i soldi sono frutto del lavoro dei campi, dell’allevamento, oppure dei turni in una delle tante fabbriche di ceramica.
Mi piace restare in questa stanza, dopo che Ulisse se n’è andato. Si sente il nostro odore. Le lenzuola sgualcite, i vetri appannati. È come se mi trovassi in una zona franca, posso lasciar la mente libera di vagare e anche d’inseguire i fantasmi.
Quando mio fratello è stato preso in cura dalla psichiatra, l’incrinatura che c’era in me è diventata più profonda. Mamma cercava di fare del suo meglio per tirare avanti. Si occupava di far quadrare i conti, della conduzione della casa, della terapia di Matteo, del mio rendimento scolastico. Ma non bastava. In quei giorni ho capito che noi tre non ce l’avremmo fatta e che era papà a darci un senso. Lui con le sue stranezze un po’ buddiste, con i racconti dei suoi viaggi in India, con la fissazione per i cibi vegetariani, lo yoga.
A un certo punto vomitare non mi aiutava più ad affrontare i giorni a scuola e le notti vuote. Sentivo l’assoluta necessità di raggiungere un grado maggiore di dolore fisico per azzittire l’altra sofferenza.
Mi sono fatta un tatuaggio sul seno sinistro, dalla parte del cuore: il simbolo dell’OM, come quello che papà portava al collo. Il ronzio continuo dell’ago mi ipnotizzava. Sentivo male, ma era un fastidio lieve, quasi piacevole, dolce. Fissavo un punto davanti a me per non svenire. Sudavo e stringevo con tutta la forza la mano di Angelo, fino a ferirmi con le sue unghie affilate. Avrei voluto che quel ronzio durasse per sempre, ma non potevo riempirmi di tatuaggi.
Allora ho cominciato a tagliarmi, come facevano alcune amiche. Mi ero procurata un kit simile al loro: una scatolina in cui tenevo le lamette, il disinfettante, il cotone, la garza e i cerotti di varie misure. Però avevo paura, e tracciavo sulla pelle solo brevi linee diritte e superficiali. Così ho chiesto ad Angelo di farlo al mio posto. Lui non voleva, l’ho supplicato. Ha accettato solo una volta. Ho ancora la cicatrice sull’avambraccio. Ricordo che faceva caldo, mancavano pochi giorni alle vacanze. Dopo aver tamponato la ferita, mi ha disinfettato e ha applicato i cerottini a farfalla per rimarginare il taglio.
Quell’estate, finito l’esame di maturità, Angelo se n’è andato a lavorare in un villaggio turistico. Io passavo le notti da una discoteca all’altra. Di rado incontravo mamma e Matteo. Non eravamo più una famiglia. È stato allora che ho capito di essere sola e che ho deciso di fare l’infermiera.

Prendo una sigaretta dal pacchetto che Ulisse ha lasciato sul comodino, le mie le ho finite. Succede sempre così. È una di quelle piccole abitudini, quasi impercettibili, che s’instaurano con il passare dei giorni e che trasformano due persone in una coppia. Come scegliere un lato del letto per dormire.

Quando ho iniziato il corso per infermieri, me ne sono andata da casa e mi sono trasferita in uno degli alloggi della scuola. Ero a una decina di chilometri di distanza eppure mi pareva di essere lontanissima. Il tempo era scandito dalle lezioni, lo studio, gli esami, il tirocinio. Spesso ci “allenavamo” tra noi studenti, ci provavamo a vicenda la pressione, ci facevamo le iniezioni oppure i prelievi di sangue. La prima volta che l’ho fatto ho sentito le gambe diventare di burro. Nell’attimo in cui il sangue è defluito nella provetta ho avuto un vuoto allo stomaco, ma subito dopo ho sentito la salivazione aumentare, i muscoli tirati e le guance infuocarsi. Provavo un piacere nuovo, un misto di potere, eccitazione e paura.
Lo stesso è capitato quando sono entrata in sala operatoria, e anche quando Ulisse ha insistito per farmi visitare il mattatoio dei conigli. Non è affatto come nei miei incubi. Sembra piuttosto un laboratorio medico. Le pareti sono rivestite di piastrelle bianche, il pavimento è tirato a lucido, e non si sente nessun odore. È difficile credere che lì, per otto ore al giorno, i conigli vengono uccisi, scuoiati e congelati. L’unico segnale di morte è il gelo che penetra nelle ossa e che i portelloni delle celle frigorifere non riescono a contenere.

«Pronto».
«Ciao. Vale, ma sei ancora lì?»
«Sì».
«Non torni a casa?»
Quale casa? L’appartamentino ammobiliato che ho preso in affitto? Con i mobili di noce, il lavello di granito e le tendine ricamate?
Resto in silenzio.
«Potrei dormire qui…»
«Ma non hai neppure cenato, vuoi che ti porti una pizza?»
«Dai, non ti preoccupare».
«Se hai bisogno fammi uno squillo…»
«Okay».

Durante i tre anni di corso ho vissuto in una specie di regime di libertà vigilata. Ogni aspetto della mia vita era osservato e valutato. Non potevo mettere lo smalto, truccarmi, portare accessori e abiti appariscenti. Era escluso che riuscissi a far ricorso al vomito, a tagliarmi o sbronzarmi senza essere beccata. Dovevo trovare un altro modo per scaricarmi e tirare avanti. L’unica possibilità di svago era il fine settimana. Così ho iniziato a uscire con una compagna. Il sabato sera andavamo a ballare in riviera e restavamo a dormire in hotel, spesso in compagnia di qualche ragazzo appena conosciuto. Dopo un po’ non potevo più farne a meno. Avevo bisogno d’ingoiare qualche pasticca e finire a letto con qualcuno che non sapeva chi fossi e di cui non m’importava nulla, se non che mi scopasse finché ne avevo voglia. C’erano molte ragazze che ci guadagnavano, ma io non ero interessata, anzi pensavo che forse li avrei dovuti pagare io, perché li usavo. Prendevo in prestito il loro corpo, il pene, la bocca, le mani.
La chiamano bulimia. Una fame da bue. Un vuoto incolmabile, da riempire con il cibo, il sesso, con qualunque cosa, a qualsiasi costo.
Me ne sono andata dalla mia città perché pensavo che in provincia, in un piccolo paese, sarei stata costretta a cambiare…

Tra poco Ulisse arriverà. Sa che quando sto così ho bisogno di lui, delle sue braccia, della sua forza. Devo bloccare il lavorio della mente, e c’è solo un modo per riuscirci: il dolore fisico. Gli chiederò di farmi male. Di prendermi, stringermi, violarmi.
Lui mi guarderà negli occhi per capire se è proprio ciò che voglio e poi mi userà come se fossi un oggetto. Un corpo vuoto. Solo così riesco a riportare i piedi per terra, a dimenticare la sofferenza.
Mi lascerà la pelle arrossata, lividi e graffi sparsi ovunque, le ossa rotte e la vagina ferita, come la prima volta. ♦

© 2007 Annarosa Pederzoli