I l teatro è gremito di ragazzi occhialuti, ragazzi smunti, ragazzi torvi, ragazze androgine e silfidi assorte. Parenti commossi. Un brusio denso sulle poltroncine di legno. Un capellone unticcio del Tg3 saldato al tripode di una telecamera si erge tra le schiere dei sedili.
Altri colleghi di tivù locali si aggirano, telecamere in spalla, nella sala. Io sono dietro, nella ressa dei ritardatari.
Mia cugina Sara è sul palco, assieme ad altri due scrittori. Ha spedito un romanzo breve ad una rivista per signore chic e ha vinto il premio.
Inaspettatamente.
Caterina Falconi
«L’adolescenza è un mistero. E i ragazzi hanno qualcosa delle creature mitologiche. Semplificati, e perfetti, nel turgore dei loro corpi intatti e nuovi, nell’ingenuità dei loro preconcetti. Si aggirano sull’orlo del precipizio, attraversati da una tentazione di onnipotenza. Conoscono il terrore.
Le protagoniste di questa storia sono due ragazze. Una si chiama Sara. Di lei mi piace la sua forza. La sua determinazione nella demolizione dei luoghi comuni. La sua fame di emozioni. E quella vampiresca capacità di indossare la vita degli altri e di fondersi con essa per condividere ogni palpito, ogni emozione».
Le protagoniste di questa storia sono due ragazze. Una si chiama Sara. Di lei mi piace la sua forza. La sua determinazione nella demolizione dei luoghi comuni. La sua fame di emozioni. E quella vampiresca capacità di indossare la vita degli altri e di fondersi con essa per condividere ogni palpito, ogni emozione».
Adesso è lassù, frastornata, coi capelli raccolti in una coda bassa, un po’ appassita per i suoi ventotto anni, il fisico perfetto e un velo di incredulità che le rimpicciolisce il volto.
Non l’avevo mai vista così esposta. Sono stata il suo giocattolo sessuale, il bersaglio della sua perversione e della sua insicurezza.
E probabilmente il suo affetto più grande.
Il mio compagno mi abbraccia da dietro. Il lungo corpo premuto contro il mio. Un accenno di erezione contro la mia schiena, il mento contro la mia testa. So che gli piace il profumo dei miei capelli. E quest’abitudine tra noi, al contatto, ad una tenerezza che può prescindere dal sesso e dalle parole, si innesca sempre più spesso e ci assicura una pacatezza strana… strana per me, che ho sempre associato alla stabilità dei rapporti l’irrevocabilità della morte.
Le luci si abbassano sul pubblico, mentre i riflettori eruttano un bagliore lunare sul palcoscenico. La premiazione sta per iniziare. I giurati posano dietro il loro tavolo.
Guardo Sara che si curva un po’ come fanno le ragazze troppo alte e insicure. Il terzo classificato le dice qualcosa in un orecchio, lei si abbassa ancora di più per assecondarlo e un sorriso leggero le tende le labbra.
Conosco quel sorriso. Non lo sta ascoltando.
Sara è anni luce lontano da lui. È fiorita in un’identità nuova. La sua metamorfosi è completa. Stasera è un baccello svuotato. I suoi umori, la sua anima riempiono le pagine di un tascabile edito dalla casa editrice che sforna riviste per signore chic, romanzi rosa e occasionalmente buona letteratura.
Mi chiedo quando abbia iniziato a mutare.
Tra i volti che ho scorto prima, tra i giurati, nel pubblico, ce ne sono certi come trasfigurati. Gli intellettuali veri, e tutti quelli che in qualche modo rimestano tra le parole e i significati, hanno questo marchio in faccia. Sembrano consumati, hanno occhi accesi che guardano attraverso e risucchiano.
Sara è una di loro.
Rabbrividisco e ingoio un groppo ruvido. C’è un sospetto che mi frulla in mente, che tu mi abbia usata per arrivare ad essere quello che sei, e io devo assolutamente sapere se questo sospetto è fondato.
Per salire a casa dovevo attraversare il pianerottolo dell’ammezzato, un rettangolo di marmo che sembrava il lato rigido di un festone a fisarmonica. Le scale si snodavano verso l’alto in due brusche torsioni, e a guardarle da sotto sembrava che franassero sul pianerottolo come i tasti sconnessi di una pianola. Papà aveva fatto piazzare un divanetto di pelle screpolata contro la finestra ad arco che apriva la parete di fronte alle scale, aveva schiaffato ai lati dei braccioli un portariviste in vetro e ottone, e un posacenere a cipolla traforato che si apriva spingendo un perno ed emanava un piacevole tanfo di cicche. Su quel divano si accalcavano i clienti dello studio legale di mio padre, contadini delle campagne vicine, sempre carichi di buste annodate pesanti di verdure, polli decapitati e conigli scuoiati. Sotto Natale questi fagotti sanguinolenti si moltiplicavano, e il sottoscala puzzava di macelleria.
Io avevo sedici anni e ne dimostravo tredici. I miei seni erano melucce, e sporgevano da un torso sottile sotto due spalle magre e all’insù. Avevo fianchi stretti e un culetto rotondo da bambino. Gambe cortine e armoniose. Un viso largo e occhi da cerbiatta. Capelli lunghi con un ciuffo da barbie che spioveva come una benda sul mio occhio destro.
Frequentavo il quinto ginnasio.
La mia realtà era già da allora spaccata in due: da un lato ero la figlia trascurata di una bislacca coppia borghese (avvocato e casalinga laureata), dall’altro l’alunna più brillante del ginnasio.
Tra queste due condizioni vivevo le mie trasgressioni, fumavo erba e sigarette, bevevo quando capitava, facevo lunghe e solitarie incursioni nei siti porno, mi strofinavo a te.
Ed ero vergine.
Una secchiona vergine e cannata che rubava compulsivamente nei minimarket e si faceva di poesia. Ero intuitiva ed empatica, e mi adattavo alle persone e alle situazioni senza paura di perdermi. Dentro di me tamburellava la convinzione di essere una tipa speciale. Una scafata e forte.
Forse ero un po’ isterica. Forse ero semplicemente ingenua.
Il matrimonio dei miei genitori era allo sfascio e io avrei avuto tutte le ragioni per sentirmi impaurita e infelice. E invece non provavo nulla di tutto questo. Era come se nella mia nuova intatta perfetta pelle di ragazza fossi invulnerabile. Certe volte riflettevo, attraversando il pianerottolo e la ressa dei clienti sudati che ammutolivano al mio passaggio e mi guardavano con malignità, che non sarei mai riuscita a provare un sentimento squassante, un trasporto alla Goëthe, alla giovane Werther. Alla Rimbaud… e cazzate del genere. Che quella risciacquatura di buoni propositi che ogni tanto mi ristagnava in petto era il massimo che potessi sentire. Io non appartenevo a niente. Se avessi avuto un amore magari sarebbe stato diverso, ma come si faceva ad avere un amore?
Gli adulti erano squallidi e la passione non c’entrava niente coi mugolii orgasmici della procuratrice e i tonfi delle sue anche contro la macchina delle fotocopie, le volte che papà se la sbatteva in piedi nello studio vuoto. Io attraversavo il pianerottolo nell’odore delle cicche, nella luce fioca delle plafoniere, sfioravo con lo sguardo il divano screpolato e la porta dello studio e li sentivo. Lo facevano una sera sì e una no. Una volta dalla porta chiusa a chiave eruppe una scarica di gemiti maschili rotti e animaleschi che mi fecero un’impressione terribile. Salii le scale sbandando e trovai mamma in cucina che rimestava nei tegami col testolone chino, come se, tra le pareti decorate a stucco della nostra casa signorile con abitazione sopra e studio legale al mezzanino, nulla contasse più delle bolle untuose della salsa che si gonfiavano e scoppiavano piano.
L’amore non poteva essere neanche quell’insipienza. Quel mansueto accudire la casa che movimentava le giornate enfatizzando la banalità del mangiare, del vestire bene, del dorfmire in letti puliti.
Da bambina avevo avuto spesso la sensazione di galleggiare in una specie di bolla. La casa mi sembrava troppo grande, e la presenza di mamma, sempre assorta in un lento ripetitivo macinio di faccende, sempre dietro le cose, non mi saziava.
Con papà era diverso, anche se stavamo poco insieme. Le rare volte che parlavamo si sedeva di fronte a me e mi restava fisicamente vicino per tutto il tempo. Io sentivo sulla nuca le rasoiate del suo sguardo sospettoso che era in ansia per me, e non mi credeva. Era malfidente e distratto. Distratto da altri pensieri, dai suoi segreti, dalla mamma. Sentivo anche il suo calore, in senso materiale. L’odore del suo dopobarba, quello un po’ amaro e conturbante del suo corpo. Coglievo la dolcezza dei suoi occhi, il rammarico per il suo amore insufficiente e intermittente, e mi veniva una gran fame anche di lui, e una disperazione terribile perché sapevo che di lì a poco si sarebbe alzato, sarebbe andato a lamentarsi del disordine con la mamma, o a guardare la televisione, ad accendersi una sigaretta.
A rinfilarsi nel suo scafandro di insofferenza.
Un cliché anche questo. Come la sensazione terribile di non riuscire a respirare in quel silenzio rarefatto e torbido.
Crescendo è passata. I libri sono stati un grande riempitivo. Anche la scuola. Il sublime, il tragico, il grottesco, la perversione, le storie di passione, i grandi ideali, tutto passava attraverso le pagine. Mi curvavo su un libro aperto e dopo un po’ sfondavo, c’ero dentro, e il languore che assorbivo era cento volte maggiore di quello che mi pulsava in pancia quando stavo con le amiche in sala giochi o sul corso, nella pineta a rollare, o da Terranova a spulciare tra le felpe e i jeans.
Sui libri era fondata la mia grande amicizia con te, cugina cara. Tu eri all’ultimo anno del classico e i tuoi genitori erano professori un po’ hippy, smidollati e coltissimi. Vivevi in ristrettezze economiche in un palazzo di mattoni nudi, in campagna, col terrazzo da terminare e fondaci in cemento ruvido stipati di cose vecchie e rotte. In un disordine surreale, libera di fare il cazzo che volevi. Per dire la verità eri più brava di me, nel senso comune del termine. Fumavi solo sigarette, non bevevi, studiavi molto e avevi poche pretese. Eri acneica ma molto bella, una bruna alta senopriva coi fianchi da cavallo e la figa stretta come una prugna. Al corrente delle cose del mondo, e molto sessuata.
Sei stata tu a dirmi che Silvio De Sante si affacciava alla porta dello studio di papà tutte le volte che ci sentiva attraversare il pianerottolo. Io non ci avevo fatto caso.
«Ti dico di sì. Quel praticante biondo e alto. Quello bellino coi ricci e le polo. Riconosce il nostro passo. Si affaccia. Ti cerca con lo sguardo e qualche volta sorride».
Era il primo pomeriggio di una domenica di maggio. Il sole era quasi a picco e il terrazzo in un bagno di luce bianca. Nell’anarchia illuminata della tua famiglia si potevano fare un sacco di cose fighissime, e noi avevamo trascinato lassù due sdraio sconquassate e incrostate di polvere scovate in un fondaco. Prendevamo il sole dalle dieci di mattina, in mutande e reggiseno, e iniziavamo ad avere un colore da würstel. Non avevamo la crema solare e ci eravamo spalmati di Nivea fluida. «Tanto per abbrustolire un po’», avevi detto.
Avevamo studiato sulle sdraio. Avevamo letto e parlato di ragazzi. Mangiato Fonzies, bevuto acqua minerale. Ci eravamo strofinate un po’ ed eravamo rimaste in silenzio. In quel silenzio denso e assoluto che possono reggere solo due ragazzine.
«Si affaccia per vedere quanti clienti rimangono». Ti ho risposto acida. Quell’improvviso ergersi della sagoma di Silvio tra i miei pensieri, come un bersaglio mobile nel percorso di una scuola di tiro, mi conturbava.
«No. No». Hai insistito tu abbracciandomi da dietro. Ero affacciata al parapetto di mattoni del terrazzo, sul crespo di un cielo velato di vapori e sulla campagna opaca. Il tuo corpo caldo e umido impresse sulla mia schiena un violento languore. Socchiusi gli occhi al pensiero di Silvio. Non mi sarebbe dispiaciuto se ci fosse stato lui dietro di me.
«Quando lo vedo in giro finge di non riconoscermi. Però si guarda attorno perché spera di vedere te. Gli piaci, Ele». Mi hai soffiato sulla guancia. Hai insinuato la mano tra le mie cosce e hai premuto la punta dell’indice sul mio clitoride. Avevi un tocco leggero ed esperto. Ho fatto finta di niente e mi sono lasciata accarezzare fino a sentirmi così piena di desiderio da avvertire che mi scappava la pipì, allora ti ho respinta. Non ero mai andata oltre quella strana sensazione.
Il giorno dopo sembrava estate. L’aria era così tersa e leggera che respirare stordiva. Il corso brulicava di ragazzi e giovani mamme con i bambini. Coppie di fidanzati nei travestimenti trendy. Guardavo tutti in faccia e dopo un po’ mi accorgevo che la luce dei loro occhi belli era solo spavalderia.
«Siete dei grandissimi idioti in erba». Li insultavo dentro di me. «Ci vediamo tra vent’anni».
E non riuscivo a immaginare come sarei stata io
a trentasei anni. Almeno quelli sarebbero avanzati senza scossoni su una scacchiera di eventi previsti. Avrebbero praticato la trasgressione, la coppia, il matrimonio, le corna e la maldicenza. Ammucchiato cose, fatto lavori di merda, figli ciccioni. Si sarebbero accontentati di parlare per luoghi comuni e di emozioni elementari. Senza conoscere mai l’adamantina perversione di un romanzo di McEwan, la magia di un bel film. Biascicando sui piatti. Odiando le persone diverse. Le complicazioni e il silenzio.
I miei amici razzolavano davanti alla sala giochi. E all’improvviso ho avuto una gran voglia di razzolare anch’io, coi miei stivali nuovi con la punta e il tacco esagonale.
Ho raggiunto il branco e mi sono fermata. Testa china e aria trasognata. Ho sorriso alla punta ferrata dei miei stivali, e alzando gli occhi sono risalita per le gambe pienotte della mia amica Mara, fasciate dai jeans a vita bassa, il rotolo della sua pancia nuda, le sue tette a pera e la faccia rotonda ruvida di brufoletti rossi. Lei ha sorriso battendo le mani in un’esultanza esagerata.
«Eleonora! Da quanto cazzo di tempo non ci vediamo?»
Non ci vedevamo dalla sera prima ma ci siamo baciate come usava tra noi, compite e leggere su tutte e due le guance, in una cascata di lucidi capelli piastrati.
Marco e Andrea si sferravano cazzotti sulle spalle appollaiati sugli scooter. Tre ragazze dello scientifico posavano imbronciate a semicerchio, natiche di fuori, sguardo perso sotto le palpebre turgide metallizzate dall’ombretto.
«Guarda quelle galline… fanno la punta a Andrea». Ha commentato Mara notando il mio sguardo. Ma io già non seguivo più le tre disgrazie del “Marie Curie”. Dalla porta a vetri della sala a giochi dietro di loro sei emersa tu, nel tuo metro e ottanta e con il tuo carisma bruno. Sei venuta decisa verso di me e hai infilato un braccio sotto il mio ignorando Mara.
«Andiamo a prenderci un caffè al bar qua vicino». E poi a Mara, con sussiego: «Scusa sai…»
Mara ha intuito con la bocca aperta. Il fatto che una strafiga di terza liceo come te chiedesse scusa ad una del ginnasio era motivo di grande orgoglio.
«Devo farti vedere una cosa». Mi hai bisbigliato in un orecchio trascinandomi via. Ho galoppato fino al bar appesa al tuo braccio sulle mie gambe cortine.
«Guarda!» Hai detto davanti alla vetrina. E io ho visto Silvio De Sante seduto quasi di profilo al bancone, che sorseggiava qualcosa. Bocca carnosa e spalle larghe aperte come ali nella polo sottile. Era carino.
«Volevo essere sicura prima di dirtelo». Hai mitragliato. «Sono giorni che fa ’sta manfrina. Passa davanti alla sala giochi e guarda dentro. Viene al bar. Beve un caffè. Riesce. Ripassa. Riguarda. Secondo me ti cerca. Non ti vede e se ne va via con la faccia scura. Ne parlavamo ieri, cara, è ora che scopi con qualcuno, questo qui mi sembra il tipo giusto per cominciare. Giovane, perbene, un po’ inibito. Sguardo languido… ragion per cui adesso entriamo e tu attacchi bottone».
Ti ho guardata e mi sono sentita un po’ sollevata nel vedere che avevi l’espressione sorniona di sempre. Con te non si capiva mai fino a che punto scherzavi, e il pathos delle situazioni in cui mi scaraventavi si alleggeriva. Ero molto emozionata, con un gran cuore crudo che mi martellava nella gola e nello stomaco. Avevi ragione tu, quel ragazzo poteva andare bene…
«Entriamo, Ele!» Hai ordinato. E la tua voce mi è sembrata una fucilata.
La porta a vetri si è richiusa con uno scampanellio dietro di noi. E la mia percezione di quello che stava accadendo si è fatta intermittente. Io che raggiungo il bancone in una specie di nebbia. Tu che siedi lasciando un posto libero fra te e Silvio. Io che mi arrampico sullo sgabello tra voi due. Il mio imbarazzo come una cocente sensazione fisica che mi arroventa il lato del viso dalla parte di Silvio.
La tua voce squillante che mi ricorda che ci sei e mi risucchia in una scia di sollievo: «Due caffè per favore!» E poi, spudoratamente: «Ele! Il signore accanto a te non lavora nello studio di tuo padre?» Io che sono costretta a girarmi verso Silvio. L’impatto con il suo mezzo sorriso. Lui che annuisce, mi tende la mano e mi guarda con uno sguardo timido e vellutato. Abbassa gli occhi. E io che resto lì, con la mano che piano scivola fuori dalla sua, le orecchie che cuociono, e ho l’impressione di pulsare tutta freneticamente, come un grande cuore cucito a una piccola figa di gomma. Io che voglio morire. Vaporizzarmi.
Non ricordo di cosa abbiamo parlato. Ovvietà. Convenevoli. Battutine del cazzo. In un automatismo sguaiato fatto per stordirci. Dietro quella manfrina il mio atterrito ingresso in una dimensione incontrollabile. La circospezione nel maneggiare questa bomba nuova che era il mio primo vero approccio con un maschio.
Il caffè si è raffreddato nella mia tazza. Tu hai trangugiato il tuo e mi hai detto che dovevi uscire un attimo, di aspettarti lì.
Io che avevo la bocca otturata dalla timidezza e sudavo. Silvio che mi chiedeva della scuola. Quanti anni avessi. Sedici. Davvero? Ne dimostri tredici. No. No. Va bene così. Sei molto carina. E a quel punto un gong è risuonato nella mia testa e stavo per svenire…
L’assessore alla cultura è una nana procace coi collant coprenti e il culo a martello.
Ha girato attorno al tavolo fino al centro del palcoscenico. Tre ore per aggiustare il microfono con le mani corte e appuntite dalle unghie laccate di rosso.
Stanno per premiare la seconda classificata, una casalinga leccese bionda naturale, ipotonica e adunca.
Ti guardo. I tuoi occhi sono tizzoni mentre la studi e cerchi di percepire le sue emozioni. Sei una maestra in questo: hai fatto pratica con me.
Da ragazza non sapevi bene cosa fosse quella fame che avevi. La vita ti attraeva in un modo così violento che dovevi filtrarla. Non erano i fatti a interessarti, ma quello che c’era dietro. I movimenti tellurici nel cuore e nella testa della gente. Sembravi così sicura di te, così autoritaria, e chissà che sconquasso avevi dentro. Non osavi esporti fino in fondo, ma non potevi fare a meno di toccarlo, quel fondo. Io sono stata la tua intermediaria. La tua estensione. Ho agito al posto tuo.
Adesso lo so. Ti osservo e improvvisamente lo so con una chiarezza folgorante. Le cose che mi spingevi a fare e che io ti raccontavo minuziosamente finivano nelle pagine dei tuoi quaderni.
Diventavano la materia dei tuoi primi racconti.
La mia iniziazione sessuale. Il dolore della penetrazione. Il mio terrore, soprattutto quello, sono stati il mio tributo al tuo fascino e al tuo mistero.
L’incontro al bar mise in moto qualcosa. Tu lo avevi previsto. Hai sempre avuto un grande intuito. Avevi anche ragione sul fatto che piacevo a quel giovane. Nei giorni successivi vi fu una raffica di altri incontri fra me e lui, sul pianerottolo. La porta dello studio era sempre socchiusa, e appena passavo, facendo più rumore e mettendoci più tempo che potevo, Silvio si affacciava e mi salutava. Sgusciava fuori e attaccava bottone. Le prime volte con delle scuse, cose del tipo: visto che esci potresti prendermi delle marche da bollo? Piove tanto? Hai notato se il vigile ha messo le multe in vico Celeste? Poi esplicitamente, manifestando il piacere di vedermi con sorrisetti sghembi, piccole frasi rotte.
Incominciammo a vederci al bar nel pomeriggio, ci trovavamo lì “per caso” tutti i giorni. Silvio mi offriva un caffè e mi faceva delle domande. Ci fu un momento in cui mi accorsi di non essere più intimidita da lui e passai al contrattacco. Facevo la spiritosa e Silvio sparava sorrisetti obliqui che gli illuminavano la faccia un po’ equina.
Era un bel tipo. Di una bellezza sommessa. Aveva spalle larghe come petali e ricci biondi duri. Occhi liquidi, verdi. Una simpatia da secchione, allusiva, irresistibile. E un odore terso che presto divenne una necessità per me. Mi piaceva stargli vicino e annusarlo piano senza farglielo capire.
Lui era restio a parlare di sé. Credeva di potermi manipolare perché era molto più grande. Io glielo lasciavo credere. Mi raccontava piccoli aneddoti della sua famiglia. Della madre dottoressa dispotica che marciava per casa con i tacchi quadrati, sotto un casco di capelli laccati. Del padre anziano e succube che ciabattava in giardino coi pantaloni tenuti su da uno spago. Del loro cane obeso. Dei soprammobili stipati sulle mensole. Della sua camera in mansarda con le travi del soffitto coperte di scritte: poesie, voti delle interrogazioni al liceo, degli esami all’università.
Più lo conoscevo e più mi piaceva.
Mi piaceva quella sua aria da tipo perbene, quei suoi occhi obliqui e verdi che sarebbero stati gli occhi di tutti gli uomini che avrei avuto in seguito. Tutti alti e dinoccolati come lui.
Ogni pomeriggio passavo da te. Tu preparavi il caffè e ti sedevi davanti a me al tavolo di marmo della tua cucina al piano terra. Il sole divampava nel cortile dietro la porta a vetri. I versi degli uccelli trafiggevano l’aria. C’era un’elettricità e un buonumore dentro di me che non avrei mai più provato.
«Allora? Racconta». Intimavi. Io ti guardavo e mi sembravi bellissima. Non sarei mai stata come te, anche se qualche volta avevi i capelli un po’ unti e il viso lucido. Posavi quel viso tra le mani e sembravi ascoltare con gli occhi. Con i tuoi grandi occhi neri vellutati.
Io ti raccontavo delle cose. Molte altre le tenevo per me.
«Sei un po’ innamorata di lui». Sentenziavi. E io diventavo rossa e negavo. Se provavi a toccarmi mi scostavo. Tu ti imbronciavi. Prendevi appunti.
«Che sono quelli?» Chiedevo.
«Niente. Idee per un racconto».
Arrivò giugno e tu eri molto presa dagli esami di maturità. Certi pomeriggi mi dicevi di non passare e io mi sentivo sola.
Con Silvio le cose non andavano meglio. Il più delle volte dovevo estorcergli le parole che volevo sentire, quanto ero carina, quanto gli piacessi. Mi faceva sentire un barboncino da circo. Stupida, piccola, ingenua. Era un manipolatore maschilista dai modi aggraziati, e io non avevo i mezzi per farmi valere.
Di lui mi incantavano altre cose, la strana bellezza, e la formidabile intelligenza occlusa che sciorinava ogni tanto per abbagliarmi tra una frase fatta e una battuta pungente.
Era un’estate mite laccata da leggere piogge ricorrenti. Il paese era da cartolina. Davanti ai portoni, nei balconi, vasi di coccio eruttavano margherite, ortensie, rose. Il cielo era un intreccio di nastri turchini teso sui vicoli. Le rondini ferivano l’aria.
Una mattina Silvio mi trascinò tra i palazzi scoloriti di un quartiere popolare, in silenzio fino all’appartamento di una zia che era in gita a Roma con altre vecchie della parrocchia. Avevamo deciso di fare l’amore. Io ero atterrita, e probabilmente lo era anche lui. Per distrarmi osservavo le cose con un accanimento mutilato e circoscritto che aiutava a frantumare l’attenzione e a non pensare.
I muri fradici d’umidità. Il bordo della strada mangiato dalla breccia…
Entrammo in una palazzina bianca e rosa e salimmo per due rampe di scale fino a un portone chiaro.
E a questo punto non ricordo più bene come andò. Chi entrò per primo. Se Silvio fu suadente o sbrigativo. Se attraversammo un corridoio, o se la stanza fosse subito dietro il portone. Ricordo solo il letto dalla testiera nera in truciolato. La coperta dai ricami a rilievo ocra sul fondo bianco.
Che a un certo punto aprii le gambe e Silvio si stese sopra di me. Il dolore dello sfondamento. Come avanzasse a strappi dentro di me, senza rallentare, senza fermarsi, mentre io mi lamentavo e piangevo.
La bionda peluria umida del suo petto contro la mia bocca.
Quanto lo sentissi estraneo.
Non ricordo neppure se alla fine sia venuto. A un certo punto si ribaltò accanto a me, e io mi rannicchiai contro il suo fianco.
«Non ti ha detto niente mentre lo facevate?» Mi hai domandato tu con noncuranza in riva al fiume, il giorno dopo, e ti sei accesa una sigaretta. Sedevamo sul pietrisco, l’umidità filtrava attraverso i jeans e ci gelava il culo. Le libellule volavano flosce appese alle loro ali di vetro. Il libro di greco dietro la tua schiena si scompaginava nella brezza. Ti sei voltata di scatto e ci hai sbattuto sopra un sasso.
Eri nervosa per gli orali, e per qualcos’altro, che forse era delusione, forse gelosia.
«No». Ti ho risposto laconica. Più mi attaccavo a Silvio e meno mi andava di raccontarti i cazzi miei.
«Neanche dopo?»
«Mi ha chiesto se mi è piaciuto».
Tu sei sbottata in una risata acida. «Ma tu te ne vieni mai, Ele, quando ti tocchi?»
Non ti ho risposto.
Uno scroscio di applausi in sala. La seconda classificata stringe la mano alla nana procace, blatera qualcosa nel microfono, impugna la coppa e se ne torna sul podio moscia come una cammella. Tu sei molto tesa. Fra poco tocca a te.
Fare l’amore con Silvio, dopo quel primo sgradevole impatto, fu come giocare alla campana. Saltai da una scoperta all’altra. Sempre più coinvolta. Dove mi baciava fioriva un calore intensissimo.
C’era sempre quell’interruzione tra noi, nel flusso delle parole. Ma il resto era fortissimo, un attaccamento primitivo e vibrante che prevaleva su tutto.
Mi sentivo scoperchiare alla vita. Spalancavo i miei petali sui sedili posteriori della ford di Silvio, nella luce a smalto di quell’estate esaltante che rosicchiava le ombre ed enfatizzava le sporgenze della carne umida.
La mia freschezza tratteneva in sé il bocciolo di una felicità quasi perfetta. A dieci anni di distanza da quel trip vellutato mi dico che la perfezione era solo nel turgore del mio corpo nuovo, nella compattezza dei sentimenti fortissimi e sconosciuti. Che ero ingenua e velleitaria, come tutte a quell’età. Lo squallore della vita, la pratica del compromesso, mi sembravano affari mediocri. Credevo che essere molto intelligenti immunizzasse dal conformismo. Che l’amore divampando incenerisse gli ostacoli. Ma non sapevo niente. Di quanto profondamente siamo compromessi. Che sono il senso di colpa e la paura ad avere la meglio, quasi sempre.
I miei genitori sapevano. E io non mi ero accorta di nulla. Attraversavo ovattata il loro malumore. Non pensavo che a Silvio. Non vedevo che Silvio. Glissavo sull’ostilità di papà. Sui silenzi neri che ingrossavano il tinello.
Devono aver confabulato alle mie spalle, malignato, masticato livore.
Io ero minorenne, e la legge era dalla loro parte.
Ero troppo piccola per fidanzarmi, per alzare la testa.
Mio padre era il re dei manipolatori e un gran maschilista. Era un uomo sensuale e intelligente e sapeva che la libertà sessuale è il presupposto di tutte le altre libertà. Che scopare con qualcuno significa esercitare un potere. Perciò aveva sposato una donna attutita. Io invece attutita non lo ero mai stata. Ombrosa sì, ma acuta e volitiva come lui. Per questo mi temeva, era geloso di me e possessivo. Una con la sua testa e la figa era da ripigliare a fondo nell’infanzia perché non schizzasse fuori, non volasse via, non lo giudicasse. Da avvocato scaltro capì che probabilmente era troppo tardi per opporsi a me, e decise di affrontare Silvio. Lo minacciò, lo terrorizzò, gli estorse la promessa che mi avrebbe lasciata. Poi risprofondò nel torbido della sua vita aspettando di vedermi con la faccia gonfia di pianto. Quello sarebbe stato il segno che era finita, e che le cose sarebbero ritornate al loro posto.
Accadde all’improvviso, un pomeriggio di fine agosto. Il trillo del cellulare trafisse il mio sonno e mi svegliai di soprassalto. Sedetti di scatto sul letto. Un maggiolino cozzò contro i vetri della mia finestra e io istintivamente mi coprii la faccia con le mani. Sospirai. Cercai a tastoni il cellulare nella pizza di lenzuola e lessi il messaggio di Silvio: «Ci vediamo alle 3 al bar. Devo parlarti».
Mezz’ora dopo entravo nel bar. Sensazione di déjà vu. La penombra del locale velò il mio sguardo. Silvio era seduto vicino all’uscita. Sedetti di fronte a lui e capii subito che qualcosa non andava. Mi aveva salutata senza sorridere e mi sembrava ostile. Il labbro inferiore contratto e sporgente, gli occhi quasi a mandorla un po’ febbrili.
«Ti ho vista arrivare e ho già ordinato due caffè». Disse, mentre io cercavo di ricordare freneticamente se l’avessi offeso in qualche modo. Un cameriere emerse dalla nebbia del mio campo visivo e posò il vassoio sul tavolo. L’odore del caffè mi riscosse. Qualcosa si muoveva dentro di me, un’antica diffidenza, l’abitudine alla delusione, una stanca ostilità collaudata.
«Che hai fatto, Silvio?»
«Dobbiamo lasciarci». Rispose come se avessi sfiorato la molla di una tagliola.
«Che stai dicendo».
«Dobbiamo lasciarci». Di nuovo, più lentamente, come un pupazzo a batteria con registrazione incorporata che si sta scaricando. Venni assalita da una vampata di terrore puro.
«Perché?»
Tutti i miei sforzi erano tesi a decifrare l’espressione dei suoi occhi torbidi. Il terrore si scioglieva piano e colava gelido dentro di me. Magari stavo per svenire. Eppure gli batteva qualcosa, dietro le iridi vellutate, che smentiva le sue parole.
«Tu mi ami».
«Non è importante quello che provo io! Sei troppo giovane! Sei quasi una bambina. È stata una pazzia». Mi urlò addosso.
Io mi guardai attorno. Il barista e alcuni clienti avevano alzato la testa e ci lanciarono rapidi sguardi curiosi. Il fatto che lo avesse detto così forte, davanti a tutta quella gente, sanciva l’irrevocabilità della cosa. Non mi era mai successo di entrare in collisione con un maschio, neanche con papà. Era terribile la violenza che si percepiva dietro quelle parole. Che fosse Silvio a pronunciarle non potevo sopportarlo. Qualcosa sbollì nella mia testa. Le orecchie mi ronzavano. Per allentare quel malessere presi a osservare le cose al bar. I tavolini. Le sedie. A chiedermi quale fosse la gradazione della luce. Quante tessere di ceramica ci fossero nella fascia che bordava il bancone.
«Scusami. Non è colpa tua». Sussurrò Silvio. Con uno scatto da film horror i miei occhi si puntarono su di lui, e tornarono a vagare nel locale. Sapevo che bluffava. Non era affatto in vena di scusarsi. Era incazzato nero, con mio padre, di cui adesso vedevo l’ombra gigantesca su di noi. Con se stesso. E soprattutto con me, per la pena che gli facevo, e la voglia che gli mettevo di prendermi in braccio e portarmi via, mandando affanculo il mondo.
Ma non lo avrebbe fatto.
Un velo caldo coprì i miei occhi e si sciolse in due lunghe lacrime.
Di tutti i dolori della mia vita quello era il più grande, perché m’era piombato addosso quando finalmente ce l’avevo fatta a sporgere da un viluppo di indifferenza. Se volevo resistere dovevo rientrare sfracellata nel mio guscio, ritrovare subito l’abitudine a lasciarmi scorrere addosso la vita degli altri. Così guardai attraverso il vetro che dava sul marciapiede. Una donna sulla trentina passava su tacchi altissimi.
Mi alzai in piedi di scatto.
Scagliai di nuovo gli occhi addosso a Silvio. Non provavo più niente. Le emozioni erano di nuovo tutte dentro di me, pigiate in fondo. Mi girai bruscamente e uscii di corsa dal locale. Imboccai una serie di vicoli con la faccia cotta di pianto. Piangevo e non provavo dolore. Le lacrime e il cuore, lo stomaco e le gambe, andavano per conto loro. Sapendo che Silvio non avrebbe potuto ritrovarmi, zigzagai per le stradine del paese fino alla stazione.
L’autobus per casa tua gorgogliava in folle come un bollitore. Lo presi al volo e sospirai di sollievo sentendo che le porte si chiudevano sbuffando dietro di me.
Qualche ora dopo ero sul tuo divano. I tuoi stavano al cinema. Fuori era buio. Un imbuto di luce annacquata spioveva sul tavolo ingombro di libri dal lampadario a cono. La faccia mi scottava. Sentivo gli occhi piccoli tra le valve di gomma delle palpebre gonfie. Avevo pianto e parlato per tutto il pomeriggio senza ascoltare quello che dicevo, con la sensazione di ripetere febbrilmente sempre la stessa cosa. Tu ti muovevi nella stanza in silenzio, contrariata. Forse ti sentivi in colpa. A un certo punto hai frugato in un cassetto. Poi ti sei seduta vicino a me e mi hai imboccato una pillola. Ti sei stesa contro di me e hai aspettato che facesse effetto, che mi spegnessi sussultando. E forse l’ho sognata la tua mano che si insinuava sotto la mia gonna, quel liquido strofinio, il calore che scoppiava tra le mie cosce.
Mi svegliai nel buio cremoso del tuo tinello. La notte profonda dietro i vetri della tua finestra, tra le persiane spalancate, scintillava corrosa da una spruzzaglia di stelle fuse.
Mi stropicciai gli occhi, ma erano asciutti. Niente lacrime. Solo una fitta di sgomento per qualcosa che non mi venne in mente subito, e che arrivò dopo un sospiro, dietro il ricordo del viso di Silvio, come un pugno nella pancia.
Lo avevo perso. E stavo per perdere anche te, che saresti partita per Roma entro una settimana, per frequentare l’università.
Portai le ginocchia al petto. Il dolore ruggiva sotto la coltre dell’ansiolitico. Dovevo pensare. Scavare dentro di me con tutta la lucidità che il Tavor in qualche modo aveva compresso in un angolo della mia mente.
Sapevo di essere ad uno snodo importante della mia vita. Le condizioni c’erano tutte, persino l’ingrediente di un dolore personale fortissimo. Se l’amore finiva così, dopo averti arsa, in un moncherino sanguinolento, in un urlo attutito da uno psicofarmaco, non volevo più averci a che fare. Potevo ancora scappare, dimenticare quell’umiliazione. Deragliare dai binari della vita fabbricata per me dai miei genitori, coi loro malumori, la loro rabbia, il loro affetto insufficiente e presbite.
Se non lo avessi fatto sarei rimasta con loro. Avrei sceso e salito le scale della nostra casa, attraversato il pianerottolo che puzzava di macelleria, intravisto Silvio dalla porta socchiusa, di schiena, con le spalle alzate per la sconfitta e un fascio di pratiche in mano, disperatamente irraggiungibile. Per mesi. Anni. Sarei maturata in quel grigiore, e la vita di paese mi avrebbe risucchiata nei suoi ingranaggi, un brandello alla volta. Magari sarei ingrassata. Avrei fatto l’avvocato, sposato un architetto panzone. I libri si sarebbero ammucchiati sul mio comodino e la loro magia si sarebbe spenta. Avrei partorito. Inzuppato assorbenti. Aggredito pizze davanti alla televisione. Continuando a sentire il battito delle possibilità indebolirsi dietro al mio cuore, uscire dal mio corpo, girarmi attorno in ellissi sempre più ampie, fino a svanire in un silenzio terrificante. Dovevano esserci altre cose per me, lontano da lì. Emozioni piacevoli e meno scontate…
Il giorno dopo comunicai a papà che avevo deciso di accettare la proposta del suo amico pedagogista, di iscrivermi a quel liceo sperimentale a Messina. Eravamo a tavola, uno di fronte all’altro. Mamma si aggirava per la cucina col passo soffice di ciabatte e il respiro pesante, da quel frollo mammifero domestico che era.
Papà non rispose subito. Piantò i suoi occhi nei miei e provò a scardinarli per capire cosa fosse successo. Sapeva che avevo rotto con Silvio, ma non riusciva a prevedere le mie reazioni, e questo lo sconvolgeva. C’era una strana luce nel suo sguardo sospettoso, tra i grumi di sgomento e i lapilli della rabbia. Il tipo di sguardo che tutti i ragazzi vorrebbero sentirsi addosso almeno una volta: mi riconosceva come figlia sua, riconosceva la sua forza in me, e mi lasciava andare.
Così partimmo tutte e due. Io per la Sicilia. Tu per Roma.
Tornavamo a casa per le vacanze. Io con gli occhi ancora pieni di luce e dell’azzurro del mare. Tu sempre più riservata e stranamente dolce.
Mamma invecchiò in picchiata. Papà ruppe con la procuratrice. Silvio aprì uno studio suo e sposò una collega da cui poi si separò.
Io e te ci incontravamo come meteore e parlavamo poco. Era sbocciato uno strano ritegno fra noi, e un silenzio vellutato era sceso sulle occasioni in cui ci eravamo accarezzate.
Poi per me ci furono Biologia e il dottorato. Per te il dottorato e la cattedra. Con la differenza che tu insegnavi la storia bizantina, io consumavo gli occhi sui vetrini dei microscopi elettronici. Ero incantata dall’iridescenza delle vitamine. Dalla gommosità dei globuli rossi. Dalla globosa perfezione delle cellule.
La vita mi attraeva nella profondità della sua complicata struttura. Verso il piccolo, e i misteri di ingranaggi psichedelici che si aggregano su minuzie ulteriori. I moti del cuore potevano pure sciabordare in superficie. Che mi fregava. Tu continuavi a macerare su quelle risacche, con i tuoi amori e i tuoi casini. Io fottevo meccanicamente con i colleghi. Alimentavo altri fuochi.
E adesso ti guardo attraversare il palco e andare verso lo scrittore famoso che si alza in piedi dietro il tavolo della giuria e sembra un po’ turbato dalla tua bellezza. Gli tendi la mano. Lui la stringe e ti porge una grande coppa d’argento.
Il mio compagno mi abbraccia forte. Tu ti volti verso il pubblico. Sollevi un po’ la coppa da un lato secondo le indicazioni del fotografo davanti a te.
Un flash ti imbianca e poi scompare, restituendoti commossa al mio sguardo emozionato.
Siamo approdate alle nostre mete. Tu hai fatto un buon uso del tuo dolore. Io ho lasciato il mio sotto al divano spellato di un pianerottolo. Ho riempito quel vuoto di vetrini ingigantiti dalle lenti e colorati dai reagenti chimici. Dovrei sentirmi appagata. E allora cos’è questa disperazione che all’improvviso mi riempie la gola?
© Copyright 2007 Caterina Falconi (originariamente pubblicato su "Fernandel" n. 61, luglio-settembre 2007).
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