Primo Fornaciari. La rubrica Erbacce è stata pubblicata in tre puntate sulla rivista Fernandel tra il settembre 1999 e il gennaio 2000.
Reseda alba
Le strade della campagna sono vuote. Percorse solo da chi vi ha traffici agricoli o da sparuti artisti. Questi ultimi dichiarano intenti grandiosi ad ogni scorcio di carraia un poco suggestiva. Di fronte alla vecchia insegna, alla colonna corrosa, al rudere, al campo di girasoli. Poi si dimenticano di quei progetti. Hanno altro da fare, come tutti, per lo più in città. La campagna è ancora la dura terra. Ormai slavata e spolpata dei sali e dei succhi migliori, la rifuggiamo un po’ anche per vergogna e senso di colpa. Le erbe restano. Assillo di rari falciatori municipali, senza più bestie da sfamare, crescono in un nuovo e promettente medioevo. La reseda alba, ad esempio, con i suoi effluvi, inebria il pigro passante nella prima estate. Erbaccia-segnale, affusolata spiga di neve, svetta in belle file a delimitare un nuovo edificio: la palestra comunale. Una cupola geodetica tra un campo di erba medica, un vigneto e un orto ombroso. Attorno alla moderna costruzione le più belle erbe di terreno di riporto: sonco, romice, carota selvatica, rosolaccio, immersi in un frinire continuo. La cupola bianca, il selvatico attorno, e la reseda, che cinge il tutto come una piccola palizzata odorosa. Ciò accade in una campagna ferma, svagata, che aspetta rari camioncini di surgelati a domicilio dai nomi affascinanti: Magic Gel, Bo Frost, Quinta Stagione. A evocare chissà quali mondi, chissà quali promesse frescure.
Salcerella
In agosto, percorrendo le strade di campagna, si scorgono da lontano le famiglie di salcerella. Macchie di rubino acceso. Per questo ha sempre ricordato il sangue e indotto i medici antichi a curare le ferite con i suoi succhi. Sommamente amante dell’acqua, i suoi steli araldici, a Y contrapposti, spuntano decisi dai fossi. Se ne tagliate un rametto, posto poi in un bicchiere metterà presto le radici. Saldamente squadrata nel fusto e nei rami, con piccola peluria puntiforme, il portamento della salcerella – generalmente così ieratico, quasi teologico – ha come un cedimento affettuoso solo alla congiunzione dei bracci. Qui il fusto si allarga, come con due mani a coppa, per reggere dalle ascelle i prolungamenti che porteranno il carico dei portentosi racemi fioriti. Gli aspetti così diversi di questa piantina ce la fanno apparire tra le più simpatiche. La compagnia chiassosa che crea con le sorelle, in quel domestico pediluvio ammantato di rossori giocosi, non manca ogni volta di stupirci nel biancore polveroso delle strade estive. Questo suo richiamarci in gruppo alla realtà del sangue, ci fa sentire in pieno la forzatura degli uomini, nell’attribuirle la parte di dama sanguinaria. Citare i bardi del nostro secolo e la loro tendenza a dimorare nei fossi (per mettersi al livello delle bestie e con loro ammirare il cielo) è, in fondo, un inutile aggravamento. È chiedere troppo a questa “erbaccia” e, sicuramente, eccedere di sentimento verso la natura.
Silene
Del genere Silene è la più comune. Tutta l’estate sarà facilissimo vederne i fiori bianchi a calice. In primavera, con le foglioline di un verde spento, fa lieta la cucina, e il palato, in intingoli tagliatelleschi. Con la malva, le erbe di santa Barbara e le altre leguminose sfuggite ai campi, è anche la più ardita nell’affacciarsi alle strade più trafficate e puzzolenti. Eppure il fiore, così candido, ricordando qualcosa di infantile, con le tenere venature verdine del calice, dà un senso di precarietà, immagine successivamente smentita nella fruttificazione. Solo allora si mostrerà in pieno la sua originale forza, che le permette tutta l’estate di vivere ai margini della statale. Adesso sarà un tubolo cartaceo con fiere punte rivolte al cielo. Caparbio, in una fioritura fittizia. Dentro il calice, a difesa dei semi, un cancello a forma di stella formata dai vecchi sepali. Immancabile, in ognuno di questi fiori fossili, un forellino nel ventre, perfettamente tondo, praticato a suo tempo dalla vespa che ne succhiò il nettare. A ricordarci la sua natura femminile, lunare appunto, fatta di inviolabilità e cedimento.
Ononide spinosa
Sull’argine del fiume splende tra il secco delle graminacee. Questa pianta pensa se stessa in arsure d’altri continenti. La scopri quasi sempre sognante in posti isolati, fra altre erbe, stupita della loro compagnia. Per questo suo amore della solitudine è sororale ai poeti, creature adatte ai terreni xerici e avversi. Coi bellissimi fiori lilla, aperti come ventagli, insieme invita alla sosta e sconsiglia una prossimità eccessiva. Le spine legnose, infatti consentono intimità solo agli asini, bestie caute e riflessive, le cui labbra sanno discernere e carezzare le superfici. Annoverarla fra le erbe è un rischio. Ha il portamento dell’arbusto in miniatura. Proprio l’ammirazione più spinta sembra, a volte, che neghi il ricorso alle parole. Allora meglio restare nel vago. Ricorderei solamente l’asinello Platero, col quale un poeta girava le campagne assolate. Le soste ammirate che doveva fare davanti ai cespugli di ononide, mentre l’amico a quattro zampe sgranocchiava i legumi che questa pianta offre, e le grasse foglioline.
Malva
Medio Calderoni, artista internazionale degli aquiloni, è del segno della malva. Anche se lui non lo sa. L’ho visto io, alla fine di un pomeriggio dedicato alla costruzione di un aquilone mondrianesco fragile come una vetrata gotica, pestare allegramente le malve, nel campetto di volo tra i grattacieli, durante quella che è la cerimonia che conclude la giornata: il battesimo dell’aria, il primo volo dell’ultimo nato. Se è vero, come in effetti è, che la malva è omniamorbia per la facoltà di lenire tutti i mali, allora Medio è, allo stesso tempo, un toccasana d’uomo. Le storie che racconta, nella sua bottega-garage di artigiano tappezziere, incastonata nelle nuove periferie cementizie, non hanno nulla da temere, quanto a vitalità, al cospetto della più famosa Sheherazade. Ti siedi e prendi quest’uomo come una tisana. Esci più grato al mondo. Poco o nulla cerimonioso. Un po’ più alto. Per tornare alle erbacce si deve dire, della malva, la sua frequenza nei siti umani più dimessi: cortili malcurati, macerie, fazzoletti erbosi delle periferie più frettolosamente partorite dall’ordine degli architetti. Qui, la malva, non vista per eccesso di visibilità, si dà alla macchia in pieno sole.
Viola tricolor
Smeraldi delle periferie, varchi di verde tra le bizzarrie edilizie, splendono gli orti. Quasi sempre è il fulgore dei bidoni colorati a brillare e di riflesso le colture e le erbacce perimetrali. Protetti da palizzate di canne e da sonagli contro gli uccelli, improvvisati con tegole e coperchi, proteggono a loro volta la piccola fauna insettivora dei ricci. Sedano rapa, cavolfiore, finocchio, invidia o pan di zucchero sono affiancati da chi preferisce la coltivazione mista (questi copernicani dall’orto).
Conoscere la terra è anche l’attenzione al connubio degli odori e delle simpatie vegetali: spinaci nuova zelanda che amano accompagnarsi a fagioli rampicanti, piselli che soffocano accanto alle patate; il buon custode del lotto, sapiente di compostaggi e di miscele Landsberg, tutto pondera dei primi dieci centimetri della crosta del mondo e se ne cura. Cosi come non calunnia le erbacce e alcune le ricerca, facendosi semplicista, per infusi e macerati contro gli aggressori del suo regno. Le altre vivono da sole, stupite della cura dell’uomo per le sorelle maggiori, disposte e pettinate in lunghe file.
Le selvagge sorprendono l’occhio proprio negli orti più dimessi tra seneci e lingue di cane, dove queste oasi precarie confinano con il lotume di stazioni per la raccolta dei rifiuti urbani, accanto a reti metalliche divelte, cocci di vetro e liquami untuosi. È qui che la viola tricolor, abbandonati per sempre i campi, cacciata da chimismi agritecnici sempre più studiati, trova rifugio; allora splende tra le polveri urbane spiegando la sua corona di ventagli: il viola, il bianco e il giallo. Già nutrimento delle ninfe, ora regina degli ultimi “bricoleur terragni”, forzando non poco l’immagine di questi siti e i destini dei loro abitanti, si può eleggerla come loro protettrice, piccola santa che, come spesso accade, cela una superiorità d’altre sfere dietro un’apparenza di esilità e di stenti. La sua precarietà, consolatrice degli orti, luoghi più precari della città – ma forse anche più amati – sempre scalzati dalle betoniere, ce la rende particolarmente cara. Infine c’è da ricordare come questa dolce erbaccia rincuoratrice sia detta “del pensiero” appunto, e come ci riconduca a casa, da vani giri erborizzanti, con tenuissime impressioni sul nostro calpestare la terra.
Erba mora
In lenti ritorni a casa, file di automobili scorrono tra altre file. Serie numerabili di icone: pali, tralicci, cabine, pensiline, cassonetti, muretti di cemento, alberi da frutto con pose da candeliere e tante segnalazioni che smistano albe e crepuscoli. Sequele di povere cose come cifre scure incise su calendari suburbani di giorni frettolosi.
Tuttavia esistono posti indenni dove le peste si fanno rarefatte e i segnavia pencolano coperti da rampicanti. I frutteti abbandonati sono tra questi. Spesso dietro una curva, sotto un argine non battuto, a pochi metri dai flussi migratori quotidiani, questi veri e propri giardini di malerbe espongono il selvatico. Tra i filari tendono a egemonizzare erbacce ambiziose di farsi coltura: amaranto, cencio molle, erba morella. Quest’ultima si fa mucchio sotto i rami del pescheto. È un bel cespuglio eretto, ma il portamento depresso dei fiori e il mesto pondo dei frutti – piccole bacche verdi che maturando diventeranno nere – le conferiscono un’aria vizza e sul punto di crollare. Invece ci si accorge della sua potenza espansiva percorrendo i sentieri d’erba dove minacciose ramificazioni di euforbie scoraggiano l’avventura. Le piccole stelle bianche delle corolle d’erba mora spiccano debolmente ovunque, nel cielo nero di questa giungla campestre. Intanto vive il sonno del giardino: una famiglia di matroneschi pioppi è cinta da un busto di lunghi pali e canne di bambù, tra gli alberi del frutteto sostano macchine agricole addormentate, in disuso, a testimoniare che l’uomo non ha abbandonato del tutto questi posti, li ha abbassati a purgatori. Non c’è stata raccolta o vendemmia, meno che mai spigolatura, piuttosto qualche frettoloso saccheggio. Così le piccole mummie dei frutti non raccolti attendono, legnificati in una indeiscenza acquisita, una caduta che non verrà. Unico essere desiderante in questo torpore è lei, l’erbaccia dei frutteti. Vuole essere apprezzata come grande produttrice, è pur sempre una solanacea, si dice. La sua attività è lo sforzo della bacca di essere pomodoro. Così trascorre questa illusione estiva della solanum nigra, di cui è bene ammirare la pazienza, ma i cui risultati è meglio ignorare, quando infine il suo desco viene apparecchiato di pomi neri.
Poligono dei fossi
A volte ai margini della città, in precari lotti di terreno agricolo, si formano piccole praterie selvatiche. Avviene in autunno quando il grano o il sorgo sono stati ormai raccolti e tra gli spuntoni prendono piede le erbacce meno esigenti: composite dai fiori gialli, labiate fantasiose e varie infestanti che trovano in quell’argilla allagata da minime piogge un letto favorevole. Il campo a riposo è un lembo di terra stretto e lungo tra due rette parallele: una strada di periferia percorsa da camion ma alberata di platani maestosi come un viale cittadino e il canale navigabile percorso da poche e lente navi mercantili. Si trova poi incastrato in una striscia più lunga di edilizia industriale, forse le farine dei suoi cereali finiscono proprio in quei silos che lo circondano, si disperdono tra quei nastri e pulegge dei mangimifici che non conoscono riposo notturno. Così compresso, il piccolo lotto argilloso è quasi con sollievo che alla fine si lascia invadere dal poligono dei fossi che in poche settimane, sordamente, attorniato dalla noncuranza di migliaia di ruote dei passanti, crea la sua opera: un piccolo deserto rosso. Si vede come sia diligentemente pettinato secondo i solchi delle antiche coltivazioni. Sembra dire: – so benissimo di essere in questo posto non mio e di comportarmi in un modo sfacciatamente ineducato e molesto, così come so dell’arrivo inevitabile degli ingegneri con il diserbante di precisione che metterà fine alle mie bizze di ragazzina pedante.
Durante il giorno splende tra l’arancione e un colore mattone intenso; all’imbrunire, sotto una luna calante, appare come una preziosa distesa rosa. I suoi rami si tingono di rubino, allargandosi decisi in una contenuta vocazione arborea. I fiori carnosi spiccano direttamente sui rami come quelle cristallizzazioni del gesso chiamate rose del deserto.
Questa erbaccia infestante è creatrice di un ambiente che ci colpisce per la passione coloristica. Nel rubricarsi complessivo dell’autunno, quando la terra agghiacciandosi perde di fosforo e tinge di tinte calde i suoi arti spogli, le malerbe hanno il sentimento di farci fermare a guardare un lembo di periferia affumicata, osservare un pappo che si disfa, salutare quattro cimici abbracciate che cercano riparo nella rosa di foglie di una spraggine. Forse, è bello immaginarlo, il campo in festa farà sostare per un attimo anche il traffico degli operai che rinchiusi nelle automobili transitano assonnati giorno e notte.
Ravastrello
Su sentieri di costa sempre minacciati di abrasione splende il verde carnoso del ravastrello, la ruchetta di mare. La definizione di erbaccia mal si addice a una pianta che non lega la sua apparizione alle fortune e sfortune dell’industriosità umana, piuttosto si ha qui a che fare con una pioniera abituata a cavarsela da sola, che esprime il coraggio della sua posizione, a pochi passi dal frangersi delle onde, con graziosi fiorellini lilla tetrapetali. Tra i massi corrosi delle dighe artificiali, nei cui anfratti si depositano strati di legname e flaconi plastici scoloriti dal sole, tra alghe secche la cakile maritima tuffa le sue radici.
Al mare si arriva per sentieri secchi dove stoiche nepetelle, aspre scabiose e il timo serpillo fanno da guida. Alla fine dei sentieri, dove la pineta si infittisce, comincia l’ascesa breve delle gobbe sabbiose. È una selva improvvisa di graminacee che per poco ritarda l’apertura dell’orizzonte. Poi ci si trova in alto e si comincia degradare con le forme stesse delle piante ammofile: zigolo delle dune, calcatreppola, silene conica. Infine vince l’attrazione di quella massa d’acqua dal respiro continuo. L’incontro con le acque, in quegli ultimi tratti di costa indenni da speculazioni commerciali, dov’è possibile che avvenga senza ostacoli di casotti di cemento, ratatuglie e steccati dipinti a vernice, si accompagna sempre a un senso di mistero e avventura; qualcosa che vagamente si riferisce alla prima educazione narrativa, a certi pomeriggi di solitudine dell’infanzia, a piccoli tesori nascosti da una setta di monelli. Il tenero ravastrello, l’erbaccia più solitaria, riesce a giocare con i flussi e i riflussi. Il mare si mette al suo servizio – per simpatia verrebbe da dire, come può farlo con il palloncino colorato di bambini che giocano – trasportando i suoi semi verso nuovi limiti su cui attecchire, in armonia con i cambiamenti del disegno della costa. Qui crescerà l’anno prossimo, farà strisciare le radici, convincendo qualche relitto insabbiato a fare oasi insieme alle sue grasse ramificazioni, foglie e silique gonfie d’acqua; oppure potrebbe succederle di affacciarsi direttamente sulla battigia, semmai esistesse un metro di sabbia non pestato dai bagnanti.
Così si vede come anche la ruchetta di mare finisca per meritarsi il titolo di malerba. Nemmeno questa bella amante delle dune e dei venti sfugge infatti a un destino di prossimità agli uomini, questa specie animale che soffre meno particolarità nell’insediarsi, vantandosi di una sorte disgraziata di motilità estrema.
Topinambur
Esistono persone sagge che celano la loro felicità con metodo. Il topinambur, girasole degli incolti e dei fossati, dissimula tra le altre erbacce finché non esplode la sua allegria, allora si sa che è la fine dell’estate, e insieme all’inula, al senecione e ai verbaschi si espande in un tardivo delirio di giallitudine. Fa questo in golene fluviali e autostradali, abbellendo non richiesto giardini di case di campagna, a volte incuneandosi in campi di mais, cereale che lo riceve passivamente, non capendo tanta frenesia perché è già vecchio e riarso dal sole. Euforia del giallo. Sembra allora possibile afferrare il senso dell’onesta dissimulazione barocca, questo rompicapo morale: è più saggio il fiordaliso o il topinambur? Darsi sotto il sole tutta la stagione o nascondere i propri raggi fino al momento opportuno? L’incontro con il “margheritone” regala l’emozione del selvatico, fa sognare di sbarchi in indie lontane sotto casa. Aspro, ardente di verticalità, col lunghissimo gambo ruvido ramoso al vertice a offrire quasi un’ombrella di corolle gialle, cresce bene nella periferia industriale, addossandosi ai muri delle fabbriche. In ritagli di terreno abbandonato si fa piantagione, forse pensando a un destino mancato di coltivo. È in queste terre anonime che il topinambur nasconde il suo tesoro: un tubero dolce, una pallina di farina bianca, qualcosa da assaporare più che farne oggetto di filosofie.
Calystegia
La forza elicoidale, che tutto domina nell’universo, è l’affaticatrice del vilucchio. Codice di crescita immutabile nella profondità delle cellule, non ammette tradimenti nei millenni, aut aut: si ruota in senso orario o antiorario. Così, come la coda del camaleonte, la proboscide dell’elefante quando il pachiderma l’avvolge verso il muso e i pianeti del sistema solare ad eccezione dei misteriosi Venere e Urano, la tenera calystegia scelse, forse in tempi mitici di sonno delle creature, di girare verso destra. In attesa di un poeta che ci canti il silenzio della virtù rotatoria, le molecole, gli amminoacidi, i laberinti dei lobi cerebrali, e Coriolis e la sua legge che dirige gli uragani e i gorghi del lavabo, ammiriamo, intanto con prudenza, l’opera dell’erbaccia scalatrice delle reti metalliche. Liana delle recinzioni, si adatta, più dell’uomo, alla perdita delle siepi campestri, Così ha imparato a strisciare, coprendo i fossi non curati del suo tappeto verde punteggiato di bianche campane. A tanto coraggio, che la spinge fin dentro la città laddove trovi un ultimo lembo di orto recintato, purtroppo la calystegia non accoppia pari resistenza. Lo si vede già dai fiori che per un nonnulla si serrano avvitandosi e chiudendosi a mantice, come aspirati dal cannello verde del fusto. Quasi priva di radice viene facilmente strappata. Alla fine dell’estate appare stremata, tanto che fa tremare un accostamento, seppure forzato e stravagante, tra il suo ruotare sotto il sole e il moto perenne del nostro pianeta. Ecco che presenta al posto delle belle campane emotive capsule caduche e spente che si sfogliano nell’ovario e nelle brattee. Sotto le due dita vanno in frantumi come carta bruciata, ne escono semi neri, a spicchio. Tutta la piantina cresciuta a dismisura nell’intreccio delle maglie metalliche che prima stringeva con la forza inspiegabile della linfa, ora cede. Nel momento di questo distacco si vede come, per molto affetto al suo sostegno, ha assunto infine le sembianze della rete arrugginita, confondendosi col crollo delle ruggini.
Pan di biscia
Sul rigido quaderno computistico della campagna attrezzata, tra la parentesi dei fossi rasati e le aste di improbabili abeti – ratei passivi di festinazioni dimenticate – il gigaro aggiunge una voce. Dapprima fiore interrogativo, maldestro imitatore di domestiche calle immacolate, disegna linee avvincenti sugli assi di scrittura. In seguito misteriosi computi lo trasformano in altro. Fruttifica allora, passando dal verde al rosso acceso, in una vistosa mazza globulosa, grappolo di libidici confetti di cui però occorre diffidare. Così sull’abbaco campestre matura un capitale di frutti inopinati e non spendibili: si direbbero fondi neri, forieri di tracolli fraudolenti sotto temporali estivi. Sembra che il cielo crolli al passo con le pose fatali che questa erbaccia suggerisce, poi tutto sfuma nell’evaporazione degli scoli e i bilanci rimangono sogni di carta. Scritture di esercizi tutti uguali, sospese in attesa di curatori fallimentari che, come ingegneri delle acque, traccino solchi netti, o come miti giardinieri ridisegnino un ordine parsimonioso e sedativo, fatto di albizie, cedri libanesi, passiflore cerulee. Gigaro ghirigoro che sembri uscito dal gesto di bambinesche mani ignare di commerci meridiani, scarabocchiato sul decoro della partita doppia, componi il tuo elogio dell’ombra, ma lo fai con la goffaggine del bufo.
Euforbia
Una lucertola sul balcone al terzo piano del condominio è come l’euforbia strisciante in pieno centro cittadino. Il rettile domestico si muove cauto fra le formiche e le vespe che tengono i loro svelti commerci tra i rami di una passiflora in vaso. L’euforbia dispiega la sua ruota di carnosi raggi quando sopra di lei si agita la convulsa attività consumatrice di beni di lusso. I pochi distratti, indenni dai traffici chiassosi fuori e dentro i salottini mercantili, la scoprono in crescita sotto le fronde di un triste pitosforo, che cova verdi bacche dentro un vaso a cassa di cemento. Vaporose commesse, ignare di botanica, l’hanno allevata amorevolmente tutta l’estate con abbondanti aspersioni tra una pulitura di vetri e l’altra. La vetrina, l’essenza simbolica di questi siti desertici, rappresenta un mistero per la nostra piantina che l’osserva tutto il giorno: membrana troppo rigida per permettere il passaggio di qualsiasi sostanza organica; infiorescenza proteiforme ma asessuata sembra piuttosto scoraggiare ogni contatto; infine, ovario sterile, non culla che sembianze, immagini di passioni mai vissute. A volte questo acquario secco sembra sforzarsi di seguire l’alternarsi delle stagioni, ecco allora che si riempie di frutti e bacche esotiche, coloratissimi fiori recisi, rami innevati ad arte, melagrane spaccate, castagne e nespole, che mani sapienti dispongono, dopo uno studio accurato, tra scarpe glassate e borse a baguette.
È di notte soprattutto che la vetrina svela una certa sua natura acquatica, quando ombre di rari passanti e metronotte scorrono, disegnando sagome come di grandi pesci assonnati, sopra le luci bluette. Ora l’euphorbia prostrata sogna altri deserti, sicilie aulenti, dove, come le sue sorelle maggiori, può incantare la campagna con fioriture fugaci. Sogna brezze di coste africane, acque di porti levantini in cui specchiarsi. Invece con la parietaria entra negli spazi urbani negletti, ma, a differenza di questa orticacea, più della verticalità dei muri predilige le fessurazioni del suolo, crepe e faglie dei lastricati municipali.
Così, questa mite, è portata a nascondersi in una distesa di cose fatte per essere viste e soppesate. Forse preferisce schiacciarsi a terra, serpeggiare e dare in piccoli fiori verdi, per non assumere pose e facce. Per non dover ammiccare ed essere colta da troppi sguardi rinuncia a una fioritura più vistosa, ma inevitabilmente falsa.
Ornithogalum
Non petali né sepali, ma tepali, sono il bianco del latte di gallina, che buca il fitto verde dei lembi erbosi. Candido Ornithogalum, che sprechi il tuo latteo ardore in margini di luoghi inanimati, raccogli così attorno a te, in incontri casuali, la sorpresa di chi passa a piedi. Sempre in gruppo, come le gazze timide, non puoi però spiccare il volo al vibrare dei passi, devi darti nella tua chiara espressione, pura e semplice, intoccabile quasi, ritrosa ma splendente. Così, dopo il caos dei mesi invernali, in quella stanza dove una nube di gesti bambineschi ha rivoltato il mondo, ti alzi dalla seggiola del torpore terreno, ti stiri le braccia, e ti metti all’opera: a te tocca rimettere ordine. Rassettare attorno, tendere le lenzuola stropicciate dei campi, sprimacciare i cuscini d’erba schiacciati dalle intemperie, rovesciare la federa cornucopia dove custodivi le parole più dolci del vicinato. Amabile camerista, i tuoi steli spezzati danno latte, non lacrime; la tua apparenza diafana è ingannevole, perché affonda in terra con un forte bulbo nutricante, pane di generazioni perdute. Cosa sarebbe la primavera senza la tua opera servile? Dove nasconderemmo le bucce e le croste dell’inverno senza il tuo grembiale capace?
Non è esagerato dire questo, anche se è meglio trattenere tra pochi amici ogni ulteriore slancio apologetico. Chi ha criticato, anche per scherzo, le tue abitudini poco mattiniere, merita tutto il nostro biasimo. Sei tu sì, la dame des onze heures, ma il tuo apparire sul tardi è bensì il mostrarsi composto di una giovane dopo una breve e sobria toletta; allora appari priva di trucco, con le mani umide che ancora cercano , in un gesto trasognato, il canovaccio in grembo ad asciugarle. A capelli raccolti, tirati, fanno pensare le scriminature dei tuoi tepali; a quest’ora hai già scodellato generose colazioni, e ti dedichi allo svago di un passeggio ponderato, quasi immobile. Alla sera rincasi per tempo, chiudendo la tua figura morbida di sonno, dietro le verdi imposte.
Erba cipressina
Con fiori d’erba a ombrella, da steli slanciati dall’aria triste (perché segnati dal portamento spiovente delle foglie), l’erba cipressina occhieggia tutto il tempo un territorio non suo. Aghifoglia dei fossi, sempreverde dei canali e dei fiumi della pianura limicola, con tonsure successive ci accompagna anche in tardivi sfoghi floreali settembrini (se sfoghi si possono dire, le rubricazioni impacciate, sui colletti stirati delle brattee portanti). Malerba delicata, timorosa di infastidire questi percorsi già dimessi (terrapieni panoramici su valli di canna e prati allagati), a volte incontra i veri cipressi maggiori: queste apparizioni gendarmesche, elevate sul sempre noto, veri carabinieri dell’aria, a offrire un senso di slancio libero che non incrina la loro corale mestizia; infatti si scopre come siano di scorta, con il loro aspetto cupo di nere fiamme, alle lapidi dei morti di guerra. Qui le pietre segnano a fuoco i posti dove il sangue è uscito dai suoi argini carnali per unirsi all’attraente corsa del fiume.
L’erba emula dei paesaggi cimiteriali (euphorbia cyparissias), cresciuta sotto gli alteri giri di prosa iscritta sulle steli di cemento, porta il suo piccolo segno grondante: il frutto rosso che espone nell’inverno. In questo modo vince la sua ritrosia nei sentieri spenti dalle gelate. Ma anche adesso si vede come sia facile a confondersi, perché tira fuori delle bacche rubizze come una rosa di macchia. Così, prima credendosi albero, ora con slancio fruticoso, non trova una sua parte e un suo dominio. Rimane indietro a blaterare piano, da un’alzaia per altro già zittita: stoltezza zirlante delle erbacce!
Verbasco
La banderuola segnavento è tra i monumenti creati dall’uomo il più infantile; obelisco d’aria, erbaccia eolofita, fantastica presenza ai bordi delle strade, che dapprima viene presa per qualcosa di importante – nell’orgia dei segni complessiva – poi resta una sciocca scia nella coda dell’occhio di chi passa. Ortolani esperti di bricolaggi abbelliscono in questo modo i loro possedimenti effimeri, è il modo che hanno di tastare l’aria tutti i giorni, a distinguere il rumore delle ruspe che verranno a portarsi via tutti quei pomeriggi e domeniche di lavoro. Intanto le banderuole friggono all’aria come le bucce di ardenti coleotteri. Scarti di lamiera intelaiati in legni d’accatto, umidi e sfibrati, che una volta in volo – perché tale la loro messinscena si può definire – si asciugano, facendosi leggeri come sugheri porosi. Tremula aeronautica dei giorni di noia, queste macchine ribelli si sprecano in cabrate e crolli a picco, ma solo per gli occhi di chi sfreccia a terra in automobile. Per l’artefice invece, che le osserva con l’occhio soddisfatto dell’idraulico casalingo, (non come il modellista intransigente), sono solo trastulli da poco, spaventapasseri evoluti, ali da inchiodare al palo. A chi passa e si sofferma appaiono come le povere cose lucenti che sono, piuttosto tormenti di gazze, tristi episodi di circonvallazione, o come cetonie torturate tenute a un filo invisibile.
Anche i fiori del verbasco sventolano da un asta: spigoli vegetali così belli e immaturi! Esseri virginali e vizzi, sorprendenti anche loro per la prossimità che tengono ai traffici di piombo; inaspettati, come sortiti da estreme lontananze. La loro estate è tutto un abbellire le banchine sabbiose delle strade costiere con insistenti ipertrofie. Lungaggini selvatiche con fiocchi gialli in cima, invadono i lembi di pinete spelacchiate. Ma è là dove abbiamo detto, accanto all’orto diventato un campo di volo per sognatori, che queste scrofulariacee esaltanti si schierano più liete, attorno a quei ranch di cavolfiori. Qui, il giardiniere dei lembi più poveri, l’artista delle parentesi verdi nei raccordi autostradali, con poco suggerisce qualche cosa. Sfoga un esibizionismo non dannoso; si offre allo scherno dei suoi simili di passo (intruppati in tradotte golose che tutto divorano). Può succedere che lo sguardo resti impigliato in quel groviglio di magri fusti in fiore. Così, presi da una leggera confusione, può accadere di interrogarsi: cos’è che brilla, o piuttosto, che crolla? Cosa sta per levarsi da quel mucchio di rottami, e cosa, invece, frulla allegramente per restare incatenato al suolo?
Pratolina
Attraversato un cacheto inselvatichito da erbe parassite, oltre il campo a riposo estirpato degli alberi da frutto, dove ancora giacciono le carcasse dei fusti, si arriva alle case nuove. È il progetto di edilizia popolare in piena campagna: un sogno di progresso come un altro. Esprime bene il bisogno di questi paesi di essere in pieno periferia, come il resto del mondo, sempre attraversati, mai luogo preciso. Solo le erbacce si ribellano a questa filosofica tendenza a scomparire, perché sono pazze. Come tali vanno prese, lo si capisce bene da questa loro annuale volontà di rinnovarsi, veramente immotivata, perché può avvenire solo nelle pattumiere. Altri posti liberi non ce ne sono: tutto esaurito.
Questo potrebbe annotare una creatura diafana nel suo quaderno. Seduto in una di quelle panchine dove più volentieri si siedono gli eruditi di provincia, creature miti che girano i dintorni delle città in cerca di memorie. Permettendosi così una divagazione dai suoi studi ruderali annota facezie paesaggistiche, appunti buoni per la stufa. Sogna di essere una pratolina, cresciuta in questo parchetto di pianificato, una bellis perennis, che cresce sotto le stecche del sedile di legno. Quelle foglie-linguette che verrebbe da mangiarle, le corolle sulle quali non si può dire nulla se non che sono belle, come occhi sempre attenti, anche nei giorni bui di sciopero degli insetti, aperti a chiamare le mani più tenere a raccogliere i propri steli per farne bracciali.
Lo studioso sogna il paradiso degli studiosi, dove si studia sempre e si comprende; o è la pratolina che sogna un paradiso in cui crescere tra i piedi degli eruditi, una scuola di Atene dove i peripatetici chinano volentieri lo sguardo sulle creature mute. Forse è l’erudito che sogna di essere una pratolina che sogna di essere un uomo addormentato su di una panchina domenicale. Quando si sveglia il quaderno giace a terra già bagnato da alcuni goccioloni di acquazzone, bisogna correre all’automobile, a casa.
© 2000 Primo Fornaciari