L’apparecchio ’mericano votta ’e bomb’ e se ne và; se ne và int’ a cucina, romp’ tazze e piattine.
Zia Alfonsina era la zia di mio padre, e tutti la chiamavano la Zita.Nel ’43, quando la sua casa fu colpita da una bomba, la poveretta finì venti giorni in coma con la testa fasciata. Aveva dodici anni.
Quando si risvegliò, per tutto il resto della vita parlò solo per proverbi, detti e filastrocche.
Da bambino, ogni mattina la Zita veniva al mio letto e mi svegliava sussurrandomi all’orecchio: «Marangio Marangio mò vengo e me te mangio!». Poi mi solleticava i piedi e io tutte le mattine mi svegliavo ridendo.
Parlava con voce sottile, come se ancora avesse dodici anni, ma i fischi e le zeppole che le uscivano di bocca tradivano i denti mancanti.
Ogni volta che mamma faceva il bagno a Lidia, mia sorella, lei si sedeva su uno sgabello e rideva a crepapelle ripetendo a squarciagola: «’A purcella ’e zì Francisco incopp’all’acqua spicchiacchèa!». E non era mica un caso, mio padre Francesco si chiamava!
Parenti e amici pensavano fosse una vecchia pazza incapace di comunicare col mondo. Ma per noi era ben diverso.
Quando nostra madre era in attesa di Lidia, la Zita veniva da me e chiedeva sorridendo: «Andivin’ andivinella: dove sta la tua sorella? Sta di qua? Sta di là? Andivina dove sta? »
Poi andava da mamma e carezzandole il pancione canticchiava: «Patanella, patanè, pe’ la casa quatt’uocchje, quatt’ recchie e duje nase!». E l’abbracciava felice, e nostra madre finiva sempre per commuoversi.
La Zita pativa una fame atavica. Mangiava più di tutti noi, chiedeva cibo di continuo, tant’è che si dovettero mettere dei chiavistelli ad ante, porte e cassetti della cucina. Così la Zita per dispetto girava ululante per la casa come un cane bastonato a salmodiare stornelli. «Tuosto e lisce ll’acalaje; càvero e muscio ll’aizaje; ’ncuorpo màmmeta s’ ‘o chiavaje. ’O maccaruuun’!». Oppure: «Mannaggia ’a marina, pé mmezz’ ‘e Giacchino, s’è rrutto ’o cuppino, e nun pòzzo magnà».
E contro nostra madre: «Storta, picoscia, tién’ ‘e ccosce mosce mosce e sott’ ‘o suttanino tién’ ‘o scoglio ’e Margellina!»
A questo punto mamma sbottava: «Zita, finiscila di fare la pazza, non serve a niente, hai mangiato già e mò aspetti, capito?»
E lei con la faccia malupina: «A pazze e a piccerille Dio l’aiuta!», poi prendeva una cucchiarella e la sbatteva contro i mobili della cucina. Mamma con una santa pazienza: «E va bene, ma uno solo, e poi fai la brava».
Lei smetteva e con il pizzo a riso: «Com’è lu sbirro, accossì è lo funiciello».
E si mangiava con aria soddisfatta il suo sudato biscotto.
Ilaria Introna
Sono nata a Napoli, dove vivo, il 22 aprile 1972. La Zita è il primo racconto che invio a una rivista: si ispira al cosiddetto "realismo magico", che nel meridione d'Italia ha avuto diversi esempi illustri. È un racconto al quale sono molto affezionata e ho in progetto di farlo diventare un piccolo libro illustrato; perché è di questo che mi occupo, illustrare libri. La scrittura è un interesse segreto e sotterraneo che ho portato alla luce solo negli ultimi anni.
La sera nostro padre tornava dal lavoro e la Zita tutte le volte lo salutava: «Stracque, strutto e co la cesta rotta!»Una sera nostro padre rientrò più tardi. Aveva lo sguardo distratto, alle chiacchiere di mamma rispondeva a monosillabi, e mentre Lidia faceva i capricci perché non voleva mangiare io guardavo perplesso la Zita.
Solitamente a tavola commentava ogni portata con un motto dei suoi, ma quella sera era silenziosa. Gli occhi bassi sul piatto, mangiava lenta e di tanto in tanto li alzava su papà stretti e neri come due spilli. E mentre mamma battagliava con i picci di Lidia, papà si agitava ogni volta che la Zita gli posava gli occhi addosso.
D’un tratto, a denti stretti, scandendo ogni sillaba disse: «Tira cchiù nu pilo ’e femmena ca ciente pare e voie».
Mamma si bloccò col cucchiaio in aria posando uno sguardo indefinito sulla Zita. Papà impallidì. Io sentii un brivido lungo le braccia, mentre Lidia continuava a piangere ignara.
Nostra madre tirò un ceffone a mia sorella e con voce fredda e gli occhi bassi disse: «Adesso zitta e mangia». Lidia obbedì stranita e nella stanza calò il gelo.
Quella notte nostro padre dormì fuori e il pianto di mamma riecheggiò per tutta la casa.
Il giorno dopo, in camera della Zita, sotto il cuscino venne trovata una giacca di papà con in tasca un biglietto: «Vediamoci al solito caffè. Bacio amore».
Fu così che scoprii che la Zita sapeva leggere. Papà non tornò.
Circolava in casa, all’epoca della Zita, un fantoccio a dimensione umana.
Il volto era una borsa dell’acqua calda riempita di sale, sulla quale era stata disegnata a pennarello una faccia umana tutta storta, le gambe due mazze di scopa con infilati dei vecchi pantaloni, il busto un cuscino dai cui lati partivano due calze di lana imbottite di cotone idrofilo. Sul tutto era stata infilata una camicia, sul capo una paglietta smangiucchiata ai bordi, mentre le scarpe erano le vecchie ciabatte della Zita.
Lo aveva battezzato ’o Papocchio.
La Zita il Papocchio lo usava come spaventa gente.
Stava tutte le sere su una vecchia sedia impagliata nel corridoio a fare da guardiano alla casa.
Forse col tempo era divenuto un feticcio o forse un alter ego, chissà. Fatto sta che la Zita lo smontava, rimontava, svestiva, ricuciva. Se lo coricava dentro al letto, lo sgridava come fosse un piccerillo, lo picchiava furiosa per poi baciarlo e carezzarlo come un innamorato.
Vani i tentativi di nostra madre di sbarazzarsene cercando di distogliere l’attenzione della Zita con cardellini, usignoli, pesci rossi, persino un gatto, che quando scambiò il Papocchio per un grattatoio la Zita tentò di mozzargli la coda con un coltello da cucina; la povera bestia si salvò per un pelo, fuggendo in casa della signora Caccioppoli, l’odiata vicina di pianerottolo.
’O Papocchio era insostituibile! Nostra madre dovette farsene una ragione e accettarlo come inquietante guardiano notturno che, simile a un'ombra dell’Ade, vegliava sul corridoio manco fosse un maniero.
Ma io e mia sorella mai avremmo immaginato che quell’inguacchio custodisse, come muto messaggero, una vicenda del passato.
«Lidia vieni, è pronta la merenda» chiamò mamma dalla cucina.
Lidia non rispose.
«Lidia dove sei?» La voce di mamma assunse un tono lievemente apprensivo. Io sollevai il capo dal quaderno delle tabelline.
«Maaamma sono quaa...» Rispose la vocina lontana.
«Qua dove?».
«Con la Zita!»
Seguii mia madre curioso di vedere cosa stessero combinando Lidia e la Zita e lo spettacolo al quale assistemmo ci ammutolì.
Il Papocchio si trovava sul pavimento, lacerato al ventre con un coltello da cucina. Il cuscino era smembrato e la matassa lanuginosa che prima lo riempiva avvolgeva Lidia dalla testa ai piedi come un sudario. Lidia rannicchiata fra le braccia della Zita sorrideva placida mentre lei le carezzava i capelli e la cullava mormorando una melodia a labbra strette e occhi chiusi, il volto rigato di lacrime.
Mamma, dopo lo stupore iniziale, corse in bagno a piangere. Ancora oggi non so se fosse a causa della commozione per la scena o per sfogare la disperazione; nostro padre erano due settimane che non si faceva vivo.
Durante gli anni al manicomio di Aversa, nel quale la famiglia la fece rinchiudere, la Zita aveva conosciuto un uomo. Era un giovane che soffriva di una rara malattia dal nome tanto bello quanto ambiguo: Leontiasi. Aveva la testa deforme.
Fu un incontro di anime affini. Gli occhi della gente si posavano su di loro per poi scuotere il capo con raccapriccio. Due specchi dentro i quali il mondo rifuggiva il proprio riflesso con repulsione. Ma quella stessa luce riflessa la scorsero entrambi nei loro sguardi il giorno in cui si conobbero, e brillò fino alla fine.
Le volte in cui la Zita parlava del suo Papocchio, non il feticcio appezzottato, ma l’uomo dal volto leonino e informe i cui neri occhi si erano posati su di lei con pacata dolcezza, riusciva a pronunciare anche frasi di senso compiuto. Ma ciò durava il tempo di uno stupore.
Lui si chiamava Salvatore e abitava in istituto fin dalla nascita; la sua famiglia, in un’epoca in cui la deformità fisica veniva associata alla demenza, lo aveva lasciato lì e non era più tornata.
Ma Salvatore, nonostante il cranio deforme, non soffriva di alcun disturbo mentale e così, col tempo, era diventato il factotum del manicomio: puliva i corridoi, assisteva i malati durante i pasti, rastrellava i giardini, aiutava in cucina a sbucciare patate, carote, a scaldare il latte per la colazione; insomma era parte integrante dell’istituto. Lui e Alfonsina si erano incontrati una mattina in corridoio, ed era bastato uno sguardo perché diventassero inseparabili. Salvatore aveva ventidue anni e Alfonsina sedici.
Al processo i medici dichiararono che in quel periodo Alfonsina era tornata a parlare normalmente, tant’è che i progressi della ragazza furono associati a quella bizzarra unione.
Alfonsina un giorno cominciò ad ingrassare; siccome era sempre stata di buon appetito, all'inizio nessuno ci fece caso, ma quando i controlli arrivarono scoprirono che era gravida di quattro mesi. Le infermiere al processo sostennero che a causa dei farmaci molte pazienti soffrivano di un ciclo mestruale irregolare, ragion per cui nessuna di loro si era insospettita.
Fu uno degli infermieri, un tipo grasso e untuoso di nome Giovanni, a deporre al processo di aver visto Salvatore uscire dalla rimessa degli attrezzi del giardino in un’ora insolita; volendosi sincerare che fosse tutto a posto si diresse verso la rimessa, e fu così che vide Alfonsina sgattaiolare furtiva.
Salvatore fu accusato di abuso di minore affetto da ritardo mentale e nonostante l'insistenza con cui, per tutta la durata del processo, si dichiarò innocente, fu spedito in un carcere psichiatrico. Alfonsina fu sottoposta all’aborto e all’occlusione delle tube e per tutti gli anni a venire non tornò mai più ad esprimersi normalmente. Di Salvatore non si ebbero più notizie.
Venni a conoscenza di questa storia molto tempo dopo, e in circostanze poco chiare. Ma quel giorno, mentre nostra madre singhiozzava in bagno e la Zita in lacrime cullava Lidia, io guardavo il Papocchio gettato a terra, colpito al ventre come un soldato squartato da una baionetta, e pensavo che quanto stava subendo non fosse giusto.
Quel giorno atterrò plumbeo nella mia vita.
Ero tornato da scuola con il pulmino, come al solito: il cielo era grigio come fosse gennaio ma l’odore della primavera sfiorava la pelle come un respiro.
Mamma muta e pallida mi accolse con un abbraccio spento. «La zia Alfonsina è scomparsa».
Per un attimo mi sorpresi a chiedermi chi diamine fosse la zia Alfonsina. Era la prima volta che la chiamava così. Mi schiantò come un addio.
Lidia era stata mandata in custodia dalla signora Caccioppoli.
I carabinieri rovistavano in camera della Zita, nei suoi cassetti; gesti inutili, pensai, moti perpetui fini a se stessi. Li guardavo imbambolato fare domande a mia madre mentre sfilavo svogliatamente lo zaino dalle spalle. Sul tavolo della cucina c’era solo un piatto, coperto con un altro piatto; non il tovagliolo, non la brocca dell’acqua, non il bicchiere. Mi assalì la voglia fortissima di scaraventarlo sul pavimento. Mi limitai a vomitare per terra. Come fossi un automa, tutto il pranzo della mensa scolastica crollò dalla mia bocca sul pavimento della cucina. E mentre vomitavo ripensavo a quella frase: la zia Alfonsina è scomparsa.
Ma come può un pezzo di ossa e muscoli e pelle e occhi e mani e denti svanire come vapore? Sono spariti, scomparsi, andati via, papà e la Zita, entrambi come caramelle succhiate in gola.
Da bambini si vive il tempo statico, troppo breve il passato per doverlo ricordare e troppo sconfinato il futuro per poterlo immaginare.
Sparire dalla vita di un bambino è un trucco da prestigiatore, come il coniglio nel cappello. Se non ci sei è come se non ci fossi mai, come non ci fossi mai stato. Mi atterriva il pensiero di dimenticare. Tendevo la mente come filo d’acciaio nello sforzo di imprimere nella memoria i loro visi, la loro voce, i loro abbracci.
Usciti i carabinieri me ne andai nella mia camera, volevo stare da solo, ma mi raggiunse mia madre. «Carlo, hai visto dove sta il Papocchio?»
Lo cercammo per tutta la casa. Era sparito. Se l’era portato via con sé. Furono avvisati anche i carabinieri; quel giorno suonò il telefono molte volte ma una su tutte fu importante. Mio padre quella sera tornò a casa. Chiese a mamma di poter restare almeno per la notte, data la gravità della situazione; la risposta fu no. Tuttavia lui continuò a venire ogni giorno. La sua presenza fu un balsamo per tutti noi, nonostante mamma cercasse invano di celarlo.
Nei giorni che seguirono alla scomparsa della Zita la signora Caccioppoli fece il possibile per rendersi utile. Capitava che io e Lidia fossimo parcheggiati a casa sua mentre i nostri genitori erano in caserma per il riconoscimento di vagabondi o per le prassi burocratiche. Fu in una di quelle occasioni che vidi la cartella.
Era un tempo uggioso, mamma e papà erano usciti da più di due ore e mentre Lidia giocava annoiata con il suo peluche io avevo finito i compiti. «Signora Caccioppoli, posso andare a giocare in giardino?»
«Sì, ma vedi di non cadere che poi come la metto co’ tua madre? Fa ’o brav’, capito?»
Per raggiungere il giardino bisognava attraversare una stanza che la Caccioppoli chiamava lo studiolo, un spazio con un’enorme scrivania in noce dove lei teneva i documenti della casa. Passando buttai per caso l’occhio su una cartellina nera mezza aperta, e se non fosse stato per ciò che vidi non avrei mai frugato al suo interno.
Fuoriusciva un ritaglio di giornale ingiallito sul quale all’istante riconobbi una fotografia.
La data era di decenni prima e la carta era assottigliata dal tempo e dall’usura, come se fosse stata sfogliata molte volte. L’immagine era la stessa che mia madre teneva sul comò di casa insieme alle foto di famiglia. Raffigurava un'adolescente dritta e minuta, con occhi intensi e il volto gessato in un’espressione severa e ostile.
Era la foto della Zita quando aveva sedici anni.
L’articolo riportava tutta la vicenda del processo di Salvatore. Lo lessi d’un fiato per paura di essere scoperto e, arrivato alla deposizione dell’infermiere, cerchiata con la penna rossa, restai di stucco. Di ritagli di giornale ce n’erano anche altri, e fu su uno di questi che lessi della vicenda giudiziaria.
Come un fiume in piena mi tornarono alla mente le parole della signora Caccioppoli, che ogni volta lamentava di non capire perché la Zita la odiasse tanto e di come la guardasse di sottecchi con un misto di timore e disprezzo.
Proprio mentre riponevo i ritagli di giornale nella cartellina bussarono alla porta. I miei genitori erano tornati e io e Lidia ritornammo a casa.
La testa mi traboccava di domande, interrogativi, curiosità. Chi era l’infermiere e perché la Zita era scappata? E Salvatore? Davvero era colpevole?
Tre giorni dopo suonò il campanello di casa. Nostra madre era in bagno, papà non era ancora venuto a trovarci e io ero in cucina a incollare facce di calciatori in un album. «Lidia, vai tu ad aprire che mi scoccio» dissi a mia sorella per togliermela di torno.
Di lì a poco sentii Lidia esclamare: «Zita! Ma tu eri motta!»
Mi precipitai all’ingresso e la vidi. Era sporca, gli abiti imbrattati, puzzava di urina, ma il sorriso era lo stesso, era lei, la nostra Zita era tornata. Invece di urlare di gioia scoppiai in un pianto a dirotto. Mi carezzò dolcemente senza dire nulla. Poi sentimmo i passi di nostra madre precipitare fuori dal bagno, mamma si bloccò guardandola stupefatta e in silenzio l’abbracciò forte. Quando papà giunse non era nei panni dalla gioia.
Decidemmo di avvisare i carabinieri l’indomani, volevamo quel giorno averla tutta per noi.
Le fu fatto un bagno e a cena mangiammo tutti insieme. La commozione e la contentezza di essere lì intorno a quel tavolo di nuovo uniti ci rese muti. Gli occhi lucidi.
Mamma e papà ci chiesero di non fare domande alla Zita e stranamente Lidia obbedì, come se, dall’alto dei suoi tre anni, avesse percepito la solennità del momento.
Quella notte papà restò a dormire a casa e io e Lidia rimanemmo svegli per l’emozione ben oltre l’orario consentito. Ma quella era una sera speciale, specialissima. Eravamo tornati una famiglia. Nessuno di noi si era accorto che la Zita era rientrata a casa senza il Papocchio.
La mattina successiva la trovammo sorridente, il volto sereno e luminoso. Era morta.
* * *
Entrò nella stanza con passo lento e incerto. Il pavimento di linoleum marrone era in parte scollato, sulle pareti chiazze di umido: nella stanza vi erano dei vecchi mobili, il lavello era colmo di stoviglie sporche e l’ambiente puzzava di chiuso. Lo vide sdraiato sul letto, immobile, il respiro pesante.
Aumentò la stretta sul manico del coltello da cucina che si era portata da casa, mentre con l’altro braccio sosteneva il Papocchio. Lentamente si diresse verso l’uomo. Indossava una canottiera putrida, si sentiva odore del vino.
Il corpo era sempre grasso, ma flaccido, prolassato dagli anni. Lui si voltò e la guardò fisso con occhi arrossati e acquosi. «Carmè, sei tu? Sei venuta finalmente, guarda patet’ comm’ sta cunciat’. È colpa tua, mi hai abbandonato, m’e lassat’ sul’ comm’ a nu can’. Io muoio e tu che faje? Te ne futt’. Carmè, a papà damm’ nu vas’. Carmè pecchè stai lloc’, vien’ a cca, aiutame , fatt’ tuccà».
Lei lo guardava in silenzio. Quel relitto umano non l’aveva nemmeno riconosciuta. Come poteva, del resto? Erano passati più di cinquant’anni.
«Carmè ma che tien’ lloc? Che cos’è nu bambulott’? M’è purtat’ ’o bambulott’... piccerè...»
Al suono di quella parola si irrigidì. Piccerè... Le corse un brivido lungo la schiena nel sentirsi chiamare così dopo tutti quegli anni.
Tuttavia decise di no, il viaggio sarebbe finito lì. Si voltò per andarsene ma arrivata all’uscio della stanza sentì il vecchio mormorare fra i denti: «Pure ’o cazz’ tenev’ deforme ’o compagniell’ tuoje, manc’ na chiavata ce putiv’ fa. Cu me invece sì. È o ver’? ’O cazz’mie nun era deforme. Eh, piccerè?» Poi rise, una risata di gola, sputò a terra e si rigirò sul fianco per continuare a dormire. Lei si volse, gli si accostò, alzò la mano, e conficcò il coltello nella schiena. Lo spinse con tutte le forze rimaste. Ecco. Adesso sì. Ora il viaggio sì che era finito.
* * *
Come avesse fatto Alfonsina a trovare l’indirizzo di Giovanni Caccioppoli non lo so.
Forse lo aveva letto da qualche parte nei documenti in casa della figlia, la signora Caccioppoli, oppure chissà. Sta di fatto che nei verbali la scena descritta era quella di un uomo morto dissanguato per un coltello piantato nella schiena, la cui impugnatura era stata legata alla mano di pezza di un malmesso fantoccio a dimensione umana.
Di una cosa però sono certo, il motivo che la spinse a ucciderlo.
Su uno dei ritagli dei vecchi giornali contenuti nella cartella nera sulla scrivania in noce della signora Caccioppoli era riportato un trafiletto che parlava della morte di un giovane detenuto del carcere psichiatrico. La piccola fotografia ritraeva Salvatore. Si era impiccato.
© 2018 Ilaria Introna
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