La corrispondente da Francoforte Elena Battista, Dal vostro inviato a Francoforte


Dopo lunghi tirocini nelle fiere locali, da quella di Torino alla fiera della piccola editoria di Roma, da Belgioioso a Pordenone Legge, quest’anno abbiamo deciso che si andava a Francoforte a vedere com'è la vita vera. Erano anni che, alla fiera del libro di Torino, incontravo gente dall'aria scafata che mi diceva: «Ma dai, non sei mai stata a Francoforte? Ma il salone di Torino a confronto è come un mercato di periferia».
Folla alla Buchmesse
Nell'ottobre del 2007 i potenti mezzi di Fernandel permisero a Elena Battista di affacciarsi alla fiera del libro di Francoforte, la più importante al mondo. Quello che ne segue è un reportage, utile ancora oggi per capire le tendenze attuali dell'editoria.

La prima cosa che ho pensato, scendendo dal fanta-autobus con vocina metallica suadente che recita le fermate in un tedesco così perfetto e carezzevole che lo capisco pure io, è che davvero la fiera di Torino a confronto è come un mercato di periferia. Anzi, come la strada principale di un piccolo capoluogo, una bella città con il Corso dello struscio e tutti i negozi delle firme, che se però giri l'angolo ci sono i cani randagi.
La fiera di Francoforte, intesa come luogo fisico, è gigantesca. Un quartiere intero popolato di edifici liberty misti a grattacieli da far girare la testa. Un tripudio d'oro e merletti di ferro battuto, di vetro e acciaio, forme razionaliste o ultramoderne, un sacco di spazio e di gallerie sopraelevate. Più fighetta di Tokyo, la fiera di Francoforte si presenta con la sua bella spocchia europea, il grazioso logo trendy e multirighe e tutto il suo merchandising di design che fa mostra di sé nelle teche all'entrata. Nei tubi e nelle gallerie di vetro si muove tantissima gente, che sciama formicolante. Un mare di gente, incredibile se si pensa che è una fiera per soli professionali.
Da qui la seconda riflessione della mattinata: tutte queste formiche vengono a Francoforte perché con i libri ci lavorano. Comprano e vendono diritti, illustrano, traducono, producono. E dunque, necessariamente, qui circola del denaro. Dato che però la gente legge poco la narrativa, i distributore si lamentano e gli editori pure, devo capire un po’ meglio come funziona questa faccenda.
Prendo la navetta elettrica e mi faccio un primo giro. Scendo al padiglione numero 3, che a dispetto del suo nome è il primo (c'è un "forum 1", ma è dedicato alla compravendita dei diritti cinematografici e mi manca il coraggio di affrontarlo così, di brutto, il primo giorno). Nel padiglione 3 c'è la letteratura tedesca, al primo piano una piccola sezione di libri e fumetti per l'infanzia e al secondo letteratura tedesca più turismo e spiritualità (a Francoforte tutti i padiglioni hanno almeno due piani…).
Inizio a vagare, insieme ad altre migliaia di persone. La cosa dura più o meno dalle dieci alle dodici, due ore solo per il terzo padiglione, intendo dire solo per percorrerlo. In questo primo approccio mi ha colpito una cosa: nonostante la definizione sulla mappa (sponsorizzata da ARTE, la meravigliosa tv franco-tedesca che è una specie di incrocio tra Rai Tre ed MTV), la "literatur" non è che abbondi. Certo, ci sono alcune case editrici che si vede che propongono roba seria, hanno i loro bei poster con i primi piani degli autori in bianco e nero e un mezzo sorriso (perché gli scrittori europei hanno sempre un mezzo sorriso e vengono ritratti in bianco e nero, a differenza degli scrittori americani, che sono truccatissimi – le donne – e abbronzatissimi – gli uomini –, ma sempre e comunque a colori). Però un buon 70% degli stand propone libri che tutto sono ma non narrativa, e la cui caratteristica principale è che c'è poco, pochissimo da leggere ma ci sono un sacco di belle fotografie: giardinaggio, moda, automobili, cucina, gioielli con il feltro, orchidee in balcone, come ottenere il meglio dal vostro golden retriever e via così. Giro e rigiro ma è una tendenza indiscutibile. Lì i tavolinetti degli editori rigurgitano di ospiti, ovvero la gente pare picchiarsi per comprare i diritti di una collana di escursioni in mongolfiera da proporre ai lettori coreani, o una serie di mini libri da dare in pasto al pubblico polacco su come disporre i mobili secondo il feng-shui nei vari ambienti della casa e via così.
Mi sposto allora nella zona dei libri per l'infanzia, e anche qui la gente si picchia per sedersi ai tavolini della contrattazione: topi, rane, principesse, maghi, micetti, un'arca di Noè di personaggi di tutti i colori che insegna come contare, come dipingere con le mani, come imparare l'inglese e l'arabo, come aiutare papà a potare le rose e la mamma a impastare il tapioca.

Il famoso denaro dev'essere per forza qui, tra i libri senza parole e i volumi per l'infanzia. E dato che i diritti si vendono e si comprano con lena nei settori in cui c’è più mercato, forse il meccanismo è questo: i genitori comprano libri per i propri figli perché la cosa li fa sentire colti e intelligenti, poi quando si tratta di comprare libri per sé si buttano sulle ricette di cucina o sulle fotografie delle isole Fiji viste dall'alto. Perché sono stanchi, sono stressati dal lavoro, sono frustrati e infelici e allora vogliono imparare a fare i muffin senza lievito o a costruire in sole due settimane un modellino della Lamborghini con le stecche del ghiacciolo, ma di leggere storie non ne hanno proprio la forza. I libri che "vanno" devono intrattenere, consolare e soprattutto non richiedere troppa attenzione. La crisi della letteratura è un fatto sociale, altro che ignoranza.
Accetto un ottimo caffè biologico, naturale, equo, solidale e in odore di santità in uno stand al primo piano del padiglione 3 ed esco a respirare una provvidenziale aria fredda. Perché anche qui, un po’ come alla fiera di Torino, si schiatta di caldo e negli stand c’è di tutto, dal caffè alla penna che non macchia, al segnalibro intelligente. Anzi, lungo i padiglioni 5 e 6 c'è proprio un mercatino di bellissime bancarelle etno-artigianal-chic per sollazzare le signore, tra una contrattazione e l'altra. Lo esamino con cura, il mercatino, pranzando con un fantastico panino con il wurstel, riporto al chiosco il bicchiere di plastica e mi ridanno indietro i 50 centesimi di deposito (così si fa, per non inquinare!) e mi dirigo a bordo della navetta elettrica verso il padiglione 8, dove ci sono gli Stati Uniti, e dove mi aspetta un editore americano che devo incontrare.
E qui, colpo di scena: si passa il controllo di sicurezza. Stento a crederlo, ma sarà meglio rassegnarsi: potete far saltare in aria senza problemi l'ospite d'onore catalano, gli altri due padiglioni internazionali (dove ci sono stand tipo il Pakistan, l'Iran e cose così) e l’intero quartiere fieristico, ma non il padiglione 8. Apro la borsa e allargo le braccia. Non solo per lo sconforto, è che mi ci devono passare il metal detector a paletta.
Il padiglione 8 non è solo il regno degli Stati Uniti e di Israele, ma di tutta la "letteratura" angloamericana, nel senso di lingua inglese, e infatti mi imbatto quasi subito nel bellissimo stand della rappresentanza irlandese. Mi incuriosisce il loro programma di incoraggiamento alla traduzione di autori irlandesi all'estero, incoraggiamento che vuol dire finanziamento delle spese di traduzione, mica una pacca sulla spalla. Tra l'altro, mi spiega la fanciulla, il finanziamento viene dato anche sulla base della qualità della traduzione, perché vogliono una decina di pagine tradotte. Fantastico, bravissimi. Mi interessa, prendo un catalogo e poi chiedo se, che lei sappia, ci sono case editrici irlandesi che pubblicano autori italiani. Mi guarda attonita. Mah, veramente non credo, mi dice. È difficile che un libro straniero vada bene, da noi. Ci piace leggere autori nostri, che parlano dell'Irlanda. Lo so, è un atteggiamento sciovinista e discutibile, ma per un momento sogno di essere un editore irlandese.
Continuo il mio giro, e la mia teoria della “narrativa del disimpegno” prende quota: a parte i soliti due o tre stand di editori di letteratura, che qui come si diceva espongono le gigantografie a colori dei loro autori, il panorama è imbarazzante. Un esempio? Tentazione alla Casa Bianca, libro di ricette di grande formato, cartonato e patinato. In copertina l'autore, un bellone con la camicia sbottonata sul torace scolpito. Faceva il cameriere a Washington e ha pensato bene di scrivere le sue memorie, frammiste ai segreti del menu del Presidente. Andiamo avanti, e cito a caso: Come sopravvivere al divorzio dei tuoi genitori e diventare ricco, Liberi dall'acne in tre giorni, Magia dell'aromaterapia ayurvedica per la vita sessuale over 75. Gli americani invadono il mercato con tonnellate di libri di autoaiuto e di manuali improbabili, sempre rigorosamente patinati e fotografici, di grande formato, modello "ti arredo il soggiorno", o minuscoli, del tipo "regalo civettuolo per un'amica speciale".
Sembra questa la dura verità, cari scrittori e scribacchini italici: scartabellate il quaderno delle ricette della zia, carpite il mistero del roseto della nonna e intervistate il babbo sulla sua collezione di palle di vetro con la neve finta: questo è il futuro della scrittura.

© Novembre 2007 Elena Battista