Giacomo Cacciatore, Piccola italiana


Piccola italiana
Pagine: 136
Isbn: 9788898605903
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: 21 marzo 2019
Leggi le prime pagine



Sotto il regime fascista, Agata Amodio viene abbandonata sulla soglia di un istituto gestito da suore. La piccola crescerà lì, dimostrandosi presto “diversa”: bizzarra, riottosa e autonoma in un contesto in cui l’autonomia non è affatto prevista. I suoi rapporti con le religiose e con le insegnanti non saranno facili. Né quelli con le compagne di scuola. Per il suo temperamento, Agata diventerà un “caso” da sottoporre all’inquietante psichiatra dottor Marcus e alla sorveglianza della vigilatrice Itala Calcaterra, da sempre invaghita di Mussolini e persa in vaneggiamenti su una possibile storia d’amore con lui.
Agata riuscirà a disinnescare ogni tentativo di farsi ridurre all’obbedienza e alle regole. Refrattaria al sentimento, la bambina si legherà soltanto a Virginia Levi, una coetanea ebrea. Sempre più isolate in un contesto sociale dominato da una propaganda di regime che avvelena ogni rapporto, le due finiranno per stringere uno strano “patto d’amicizia” del tutto simile a quello che Italia e Germania firmeranno di lì a poco...

Come inizia


Davanti all’orfanotrofio del convento di Polvarata qualcuno abbandonò una cesta.
Dentro, c’era una coperta nera. Accanto alla coperta, tenuto fermo da un sasso, c’era un foglio. Sotto il sasso, il foglio e la coperta c’era una bambina appena nata.
Nella lettera c’era scritto:

Caritatevoli sorelle,
affido alle vostre cure e alla benevolenza di Dio nostro signore la mia piccola Agata, venuta al mondo quattro mesi addietro, il 10 marzo 1927. Ad ella non ho la buona ventura di poter dare l’affetto di madre, in quanto figlia della colpa e dunque invisa ai miei familiari, presso i quali ancora vivo racchiusa fra quattro muri e nel mio dolore. Insidiommi un bel giovine di facoltosa schiatta, ma di bassa moralità, di cui mi è obbligo tacere il nome onde evitare ulteriore disdoro alla mia famiglia. Ricoperta di vergogna, temetti e temo ancora. Vogliate bene alla creatura, ve ne prego. Crescetela nell’amore, nella cristiana rettitudine e nella temperanza. Io son perduta, sono sulla bocca di tutti e sotto gli occhi di chi non fa che giudicare. Lasciate che almeno lei, la mia Agata, si salvi e possa camminare per sempre a testa alta.
Una madre disperata.


A imbattersi nella cesta fu suor Zafferina, che non avrebbe dovuto varcare il portone quel mattino. Lo fece perché presa all’amo dalla curiosità: in strada c’era uno sciopero. I mormorii di protesta dei contestatori si erano imbizzarriti in urla, trascinate da uno scalpiccio improvviso, da uno zoccolare di cavalli e un tramestio di scarponi. Alla suora bastò sentire una scarica di bestemmie per correre a vedere chi le stesse buscando fuori dal chiostro della divina astinenza. Nell’intrigarsi, mise il naso oltre il portone, tappandosi le orecchie ma tenendo ben aperti gli occhi. Non le servì chinarsi e scostare la coperta per vedere la lattante nel cesto. La piccola fece tutto da sé. Liberandosi del telo nero con una manina, offrì alla monaca il primo indizio del suo carattere. Gote paffute, una risata gioiosa sulle labbra ben disegnate, riccioli diafani che preludevano a boccoli biondi. E poi gli occhi. Di una luce tagliente. Guardinghi. Maliziosi. Più vecchi di cento anni rispetto alle orbite che li contenevano.
Nei pressi sfrecciò un cavallo, montato da uno scherano di Vittorio Emanuele, con un bastone stretto in pugno. Schivò il cesto e la suora per miracolo, ma per un fenomeno altrettanto fortuito, il suo sguardo dovette incrociarsi con quello della bambina. O forse Agata vagì in quello stesso momento. O disse: «Gnegnegnè». Fatto sta che la bestia la prese male. Si alzò come se avesse toccato fiamme con il culo e disarcionò chi lo cavalcava. Gli scioperanti videro nel cavaliere caduto dalla sella una buona occasione per rifarsi delle legnate prese e delle bandiere ridotte a brandelli. Gli si buttarono addosso, pestandolo con le nocche scorticate e inzuppandolo di sputi sanguinolenti. Bastò questo a trasformare la strada in un inferno.
Suor Zafferina si fece un rapido segno della croce e riparò se stessa, cesta e bimba dentro il portone.
A lei, nell’atrio, si unirono altre religiose, attratte dal trambusto. Scesero da due spire di scale in un garrire di veli e in un uggiolare di meraviglia. Fecero crocicchio sotto l’enorme crocifisso che dominava il cortile.
«Piccina! Madonnina!»
«Orfanella…», disse Zafferina.
Agata parve sentire. Arricciò il naso e sputò bolle di saliva.
Alla suora soccorritrice sembrò un tentativo di pernacchia.
Chiuse il portone sugli scontri che infuriavano.
Non era sicura se, così facendo, avesse lasciato fuori il male o, al contrario, se lo fosse appena messo in casa. Nessuno sarebbe stato in grado di spiegarglielo. Nel frattempo Agata, per nulla turbata, le sorrise. Suor Zafferina azzardò una carezza, ma la neonata si rivoltò nella cesta negandole il viso.
All’ingresso nel dormitorio dell’orfanotrofio, la piccola sussultò sotto la coperta nera.
«Ah, te ne sei avveduta che non sei l’unica e sola qui dentro», le disse Zafferina.
«Gaaah», le rispose la bimba. E nel lettino in cui la suora la depositò, la piccola prese a muovere la testa. A destra, a sinistra. E da sinistra a destra. Il dondolio, lento ma continuo, maniacale, produceva un duplice effetto. Scompigliava i boccoli della bimba facendoli diventare un pennacchio tutto da baciare, che reclamava tenerezze. E allo stesso tempo, spingeva a interrogarsi se davvero fossero cose da neonati quello spiare incessante e quelle occhiate traverse, degne di un carcerato che studia la natura dei suoi compagni di prigionia.
Una volta di più, dacché la bambina era entrata nell’orfanotrofio, Zafferina ebbe il dubbio se farsi il segno della croce. Oppure ridere di se stessa, nel ritrovarsi a parlare così, come se avesse con chi ragionare, in un camerone abitato solo da vagiti, dove non c’erano che lattanti – messi in fila nei letti e nei fasciatoi – incapaci di risponderle. Si segnò ugualmente, per maggior sicurezza. Rapida, quasi di nascosto. Mai le era capitato di arrossire nell’offrire tributo a Dio. Padre, Figlio e Spirito Santo. E un bacio furtivo alla punta delle dita con cui aveva appena mimato su di sé i simboli della Trinità. Poi, ancora più furtivamente, fece uno scongiuro: le corna con la mano destra, nascosta sotto la tonaca. E non perse tempo a chiedersi il perché. [...]
 Giacomo Cacciatore
Giacomo Cacciatore è nato in Calabria nel 1967, ma vive da sempre a Palermo. Ha collaborato per una decina d’anni come narratore e corsivista con «la Repubblica». Ha pubblicato sei romanzi: L’uomo di spalle (Dario Flaccovio, 2005), Figlio di Vetro (Einaudi, 2007), Salina, la sabbia che resta (Dario Flaccovio, 2010, scritto con due coautori), La differenza (Meridiano Zero, 2014), Se tornasse Natale (Baldini&Castoldi, 2015), Uno sbirro non lo salva nessuno (Dario Flaccovio, 2017). Alcuni suoi libri sono stati tradotti in Francia, Germania e Spagna. Con il saggio Il terrorista dei generi - Tutto il cinema di Lucio Fulci, scritto con Paolo Albiero (Un mondo a parte, 2005; edizione ampliata Leima, 2015), ha vinto il Premio Efebo d’Oro speciale 2005 per il miglior libro di cinema.

I commenti della stampa sui libri di Giacomo Cacciatore


► «Cacciatore centra il bersaglio con la perizia del fuoriclasse» (Salvatore Ferlita, la Repubblica)

► «Il suo modo di narrare è ben agganciato alla realtà che finisce per mostrare» (Giovanni Tesio, La Stampa)

► «Giacomo Cacciatore, con la forza della letteratura, ci riporta alla realtà» (Antonio Calabrò, Il Giorno)
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Rassegna stampa

  • «La piccola italiana non rimane intrappolata nella carta moschicida della propaganda fascista» (Salvatore Ferlita, «la Repubblica», 24 marzo 2019)


  • «Una storia d'amicizia, contro ogni discriminazione» («Giornale L'Ora», 24 marzo 2019)


  • «Una bambina resistente a qualsiasi tentativo di ridurla all’obbedienza» («AdnKronos», 29 marzo 2019)


  • «Un romanzo di classe, che non va letto a cuor leggero» (Francesca Turco, Sul romanzo.it, 30 marzo 2019)


  • «È una storia sulle forme di comunicazione distorte, sulla lingua e i simboli della propaganda» (Giovanni Zambito, intervista a Giacomo Cacciatore, fattitaliani.it, 13 aprile 2019)


  • «La propaganda come motore di discriminazione» (Maria Enza Giannetto, «La Sicilia», 15 aprile 2019)


  • «Un autore dallo sguardo non convenzionale e dalla scrittura frutto di una ricerca linguistica importante» (Salvatore Lo Iacono, «Giornale di Sicilia», 26 aprile 2019)


  • «Una bambina infagottata in una coperta nera, che da quel momento diventerà quasi la sua bandiera» (Patrizia Debicke, libroguerriero, 2 maggio 2019)


  • «Sicuro dei mezzi espressivi, abile nella costruzione dell’opera si dimostra lo scrittore, capace di operare il recupero dettagliato di un passato che sembrava finito e per sempre» (Antonio Stanca, edscuola.eu, 8 maggio 2019)


  • «All'apparenza solo un'immersione nel ventennio fascista, in realtà c'è la tensione a leggere una fetta del presente» (Marcello Barbaro, «Gattopardo», maggio 2019)


  • «Sentimenti e amicizia di una "Piccola italiana"» (Gaia Matteini, «Corriere Romagna», 22 maggio 2019)


  • «Contesto storico reale e grande forza di racconto» (Antonio Calabrò, «Il Giorno», 16 giugno 2019)


  • «La mancanza di libertà all’epoca del fascismo nell’ultimo libro di Giacomo Cacciatore» (Nino Genovese, 24live.it, 18 marzo 2020)