Giulio Mozzi, Parole private dette in pubblico. Conversazioni e racconti sullo scrivere


Parole private dette in pubblico
Pagine: 192
Isbn: 9788887433241
Collana: Laboratorio Fernandel
Data di pubblicazione: febbraio 2002


La scrittura intesa come strumento d’indagine e come fondamento di una riflessione etica ed esistenziale. Non un manuale di scrittura che elargisce "trucchi del mestiere", ma una riflessione sistematica che nasce dalla doppia esperienza dell’autore: apprezzato narratore e insegnante di scrittura tra i più noti e attivi d’Italia. Il testo è la riedizione riveduta e aumentata del volume già pubblicato da Theoria nel 1997.
In copertina: Diario del cielo, di Carlo Dalcielo (2000-2001, particolare)

Giulio Mozzi (1960) abita a Padova, dove ha fondato nel 1993 la Piccola scuola di scrittura creativa. Ha insegnato scrittura e narrazione un po’ in tutte le scuole di scrittura d’Italia (dalla Scuola Holden di Torino all’Evaluna di Napoli), in alcune università (Roma, Bari) e in numerose scuole medie e superiori. Con Stefano Brugnolo ha scritto un fortunato Ricettario di scrittura creativa (Zanichelli 2000).
Wikipedia gli dedica una pagina
 Giulio Mozzi all'epoca di Lezioni di scrittura

La recensione


«La seconda edizione di Parole private dette in pubblico, rivista e ampliata, appare in una forma decisamente più didattica ed evoluta, acquistando una consapevolezza sottile ed appagata, dai contorni lucidi e netti. Forse l'eccessivo schematismo sembra pregiudicare, a tratti, la fluidità emotiva della prima stesura. Si tasta infatti la differenza tra le pagine "vecchie" (dell'edizione '97 per Theoria) e quelle più recenti, nelle quali la figura dello scrittore sembra in subordine a quella del didatta. Mentre nella prima edizione del '97 (Theoria). L'atto dello scrivere si compie interamente grazie all’esistenza di un interlocutore. La scrittura come forma di intimità, seppur transitoria, ma condivisibile, che estende "ad libitum" l'interpretazione individuale. Mozzi coinvolge procedendo lentamente in quella che pare un'autoanalisi istantanea e schietta del panorama retrostante alla scrittura. Ipotizza l'andatura perfetta, dove la stesura del messaggio inteso rispecchia, il più fedelmente possibile, il sapore privato del ritmo interiore, alimentando il legame invisibile di un'atmosfera che altri possono respirare con lui. Adottando concetti etici che contemplano e fondono il rapporto temporale tra passato e presente, analizza e confronta personaggi di Calvino, Tondelli e Lodoli utilizzando una forma rappresentativa che supera le parole evocandone le immagini. E mentre l'autore lascia fluire la propria voce esterna nell'analisi, sigilla inaspettatamente un patto fra lirica e critica, producendo poesia.
Rivelando l'esistenza di una "strategia" comune tra musica e letteratura, lancia "riff" intuitivi sui criteri della narrazione e, come ulteriore contributo all’intelletto, subordina il giudizio al potere della consapevolezza. Parole private dette in pubblico è un libro in cui Mozzi da la misura di sé, usando la sua mente come uno strumento che le sue mani hanno imparato a suonare».

Patrizia Burra, «Pulp», luglio-agosto 2002.

Come inizia


1. Manifesto: un’approssimazione (1996)
Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è una poetica minimalista d’orgoglio. Non siamo minimalisti perché sappiamo occuparci solo di cose piccole e trascurabili: siamo minimalisti perché la nostra vista è acutissima e siamo diventati capaci di vedere cose che altri non hanno mai viste prima. Siamo diventati orgogliosi a causa della nostra umiltà. È vero: non siamo più capaci di abbracciare un paesaggio con uno sguardo, di risolvere una situazione con una battuta, di rendere l’anima di una persona con un gesto. No, non è più il tempo di queste cose. Siamo felici perché le nostre possibilità sono superiori a quelle di chi ci ha preceduti. Siamo felici perché ciò che abbiamo perduto è ciò che non ci serve più. Siamo nani sulle spalle di giganti o più probabilmente nani sulle spalle di altri nani: la vista, da quassù, è comunque migliore. Siamo convinti che la vista, da quassù, sia migliore. Amiamo la tradizione che ci contiene e nella quale ci riconosciamo e che vogliamo modificare, stiamo già modificando. Le nostre ambizioni sono piccole, ma lo diciamo solo per nonchalance. Vogliamo sapere cose sul mondo, nientemeno. Ciò che ci spinge non è diverso da ciò che ha spinto tutti quelli che sono venuti prima. Certamente nella tradizione ci scegliamo gli antenati. È una cosa giusta e necessaria. Umilmente mi inchino di fronte a certi grandi e più volentieri vado a scuola da altri, forse più piccoli e forse no. Faccio dei nomi di questo secolo che naturalmente valgono solo per me: Lorenzo Montano, Carlo Coccioli, Antonio Porta, Pier Vittorio Tondelli. Questi nomi non sono una linea: sono, semplicemente, persone dalle quali ho imparato. E aggiungo, perché il ringraziamento è una cosa importante: Elisabetta, Stefano, Severo, D., Laura, Zara, le Roberte.
Ho capito che la lingua è una cosa separata da me. La lingua, queste parole scritte, non sono io. Io sono sicuro di essere io; invece la lingua è data. Quindi siamo realisti: corpo è corpo, lingua è lingua. Semplicemente, non può essere che così. La lingua è la mia serva, ne faccio uso. Non crederò mai di poter mettere un urlo sulla pagina. Il mio corpo non è una questione condivisibile con le parole. Ho un sogno di dominio, devo confessarlo. Voglio dominare una lingua che mi serva a comunicare. Se la scelta è tra retorica e terrore, io ho già scelta la retorica [Paulhan 1988]. Il mio sguardo è quel che è, della lingua voglio saper fare quel che voglio. Tanto poi lei, la lingua, se vorrà dire dell’altro, lo dirà. Qualunque dominio io cerchi di esercitare non può domarla. Eppure questo sogno di dominio mi prende. Svaluto le parole. Non uso parole grosse. Riduco il bagaglio al minimo. E faccio esercizio con la sintassi. Mentre scrivo respiro. Ecco, forse questo può passare: sguardo, respiro. Temo che per necessità saremo classicisti. Non c’è nessuna rinuncia nel parlare una lingua comune. Tenteremo una scrittura ordinata e comprensibile nei suoi svolgimenti, nel lessico, nella scelta dei tempi verbali, nell’articolazione delle frasi. Una scrittura invisibile che trovi la sua forza nell’apparente mancanza di stile e però sia capace di contenere tutto, assorbire: lingua-spugna, lingua-ameba. Parlerà delle cose che accadono davanti ai miei occhi, delle cose che accadono attraverso il mio corpo. La scrittura di stile classico (che sarà il nostro rimedio e non il nostro ideale) sarà prudente, giusta, forte e temperante. Sarà pronta nell’evitare ciò che distrae dal fine e pronta nel realizzare ciò che conduce ad esso; sopporterà la presenza del male; dominerà le paure; si assoggetterà volentieri a una disciplina liberamente scelta. [...]

I libri di Giulio Mozzi pubblicati da Fernandel: