La copertina del numero 61 Elena Battista, Formiche


Nonostante aspettasse quel momento da tanto, la prima volta che vide la macchia rossa e grumosa addensata tra le banane delle sue mutandine azzurre stentò a capire cosa fosse.
Eppure aveva pregato che succedesse fin dall’inizio dell’anno scolastico, cioè da quando Martina aveva iniziato a fare la grande. Prima erano inseparabili, poi Ester aveva cominciato a vederla distratta. Le aveva chiesto se era per via di Simone, che sembrava le stesse dietro e poi si era messo con una di terza. Martina le aveva detto che no, che Simone era uno stupido e non le interessava per niente. E che lei non poteva capire, che dopo quello cambiava tutto.
«Ma sì che capisco!» Le aveva risposto Ester scoraggiata. «La mamma me l’ha spiegato, io lo so com’è che succede».
Elena Battista
«Mi interessa raccontare la femminilità da un punto di vista asimmetrico: le donne non sono quasi mai quelle della pubblicità e le adolescenti non sono solo quelle della “TIM tribù”. Per una bambina avere dodici anni è un dramma, che spesso si inserisce nel dramma di un’altra età, i quarant’anni nebulosi e irrisolti della madre. In questo racconto volevo descrivere i mondi diversissimi di due donne, che sono madre e figlia, che si vogliono bene ma che praticamente non si conoscono affatto, forse perché conoscersi davvero è un’esperienza che non fa parte della sfera del rapporto tra genitori e figli».

«Sì, ma io lo so di più».
Martina aveva iniziato quasi subito a frequentare Federica, una loro ex compagna delle elementari che incontravano a nuoto. Federica e Martina si erano messe a fare le misteriose, escludendo Ester dai loro discorsi. Non è che l’avessero proprio allontanata, però si capiva che loro due avevano fatto gruppo. Erano diventate “migliori amiche”, pensava Ester, e lei ci era rimasta talmente male che aveva fatto finta di non accorgersene.
Anche Antonella aveva notato che gli equilibri tra sua figlia e la figlia di Barbara erano cambiati. Una sera, tornando dal cinema con Barbara, aveva buttato lì il discorso e aveva avuto conferma. Così un pomeriggio, mentre riportava Ester a casa dalla piscina, guidando lentamente nel traffico dell’ora di cena, aveva preso coraggio. Antonella era convinta di avere un bel rapporto con sua figlia, ma Ester era ancora piccola, finora le era sembrato fuori luogo affrontare l’argomento.
«Allora ti sei messa d’accordo con Martina per la festa di sabato?»
Ester non rispose, guardava fuori dal finestrino.
«Chi vi porta, io o Barbara?»
Aveva iniziato a piovigginare. Era una primavera strana, che si annunciava con un brivido autunnale.
«Avrei bisogno di saperlo perché mi devo mettere d'accordo con tuo padre. Il prossimo week end stai con lui, te lo ricordi?»
Ester seguiva il tracciato delle goccioline che si addensavano minuscole sul finestrino. Sembrava molto concentrata.
«Ester, guarda che non sto parlando all’auricolare, sto parlando con te».
Ester si girò verso di lei, che teneva lo sguardo fisso sulle luci di posizione dell’auto davanti.
«Ah scusa, pensavo stessi telefonando. E quindi?»
«E quindi, ti ho appena chiesto, vi accompagno io o vi porta la mamma di Martina? Ci hai parlato con Martina oppure no? C’era all’allenamento?»
«Non lo so».
«Ma che risposta è “non lo so”? Ci hai parlato oppure no? È venuta in piscina?»
Antonella si morse le labbra. Era più forte di lei, da qualche tempo non riusciva a impedirsi di provare una fortissima irritazione per il modo di fare di Ester. Eppure la sera, quando si accoccolavano vicine sul divano a guardare Striscia in TV, aveva ancora l’odore e la consistenza della sua bambina, quella che da piccola lei e Marco chiamavano Budda, perché aveva dei rotolini nelle cosce che le era anche capitato di mordicchiare, facendola quasi piangere. Era anche per questo che le aveva negato il televisore in camera. Ester aveva insistito dicendo che tutte le sue amiche ce l’avevano, così avrebbe potuto guardare in pace il Grande Fratello senza che sua madre le desse sui nervi con le sue critiche. Antonella era stata irremovibile: di televisore ne basta uno. Ma la verità era che avere sua figlia vicina e sentirla ancora così piccola le dava una gioia animale alla quale non voleva rinunciare.
«Sì, è venuta. Ma non so se ci vado sabato».
«Be’, ma come non ci vai? Sono mesi che ne parli».
«Sì, ma Matteo adesso non mi interessa più, parla solo delle sue gare di scherma e sta sempre appiccicato a quel deficiente di Lorenzo».
Ecco, si è sciolta un po’, pensò Antonella, bisogna approfittarne senza spaventarla, senza farla rintanare di nuovo. Una figlia di tredici anni è un po’ come una lepre selvatica, pensò ancora. Sorrise.
«Sì va be’, ridi» Aggiunse Ester. «E comunque Martina e Federica non ci vengono, alla festa. Loro adesso vogliono andare alle feste di quelli del quarto ginnasio».
«E tu vacci con loro, no? Ma che è successo con Martina? Perché non vi sentite più così spesso come prima?»
«Niente».
Ritirata. Via di corsa nella tana.
«Sai, l’altra sera parlavo con Barbara».
Pausa. Non bisogna avvicinarsi troppo.
Fuori la pioggia non ha smesso, anzi. Probabilmente la temperatura si è anche abbassata.
Ester si era messa a disegnare con un dito sul finestrino, appannandolo con il respiro.
«Eravamo andate a vedere un film».
«Che schifo, in bianco e nero e magari in cinese».
Antonella ignorò la provocazione di Ester. Era anche un po’ un gioco, Antonella faceva l’intellettuale e Ester insisteva ancora di più con la passione per i reality e i film americani.
«Insomma, Barbara mi ha detto che l’altro sabato sono andate con Martina a comprare un reggiseno nuovo. Magari sabato mattina ci andiamo anche noi. Mi ha detto che c’è un outlet che ha delle cose carine. E secondo me potrebbe essere arrivato il momento, che dici? Ti va se ci andiamo sabato?»
Silenzio. Ester continuava a disegnare sul vetro.
«E che ci metto nel reggiseno? Due mele?»
«Be’, magari due albicocche» Antonella rise per sdrammatizzare, nervosa anche più di sua figlia. «È meglio cominciare presto, così i tessuti non cedono». Le capitava spesso di rifugiarsi nel tecnico, per mascherare l’imbarazzo.
Antonella respirò forte e si buttò. «Dai, allora sabato mattina ci andiamo, poi andiamo anche a comprare un pacco di O.B. mini, così giochiamo e ti faccio vedere come si mettono».
Ecco, ce l’aveva fatta. Così, in scioltezza, quasi casualmente. In fondo ne avevano già parlato, molto tempo prima, una volta che Ester era entrata in cucina con in mano un tampax trovato in un cassetto. Ma allora era piccola, il racconto del suo futuro di donna era sembrato a sua madre una favola carica di promesse di solidarietà femminile, a Ester una specie di racconto di fantascienza che probabilmente non l’avrebbe mai riguardata.
«Tra poco succederà anche a te, sai? Barbara mi ha detto che Martina ha iniziato quest’estate».
Ester aveva tirato fuori il cellulare e armeggiava sulla tastiera.
«Ma è una cosa naturale, vedrai, non fa male. Le prime volte vedere il sangue ti sembrerà un po’ strano, ma poi ci si abitua e…»
«Sì lo so, Martina me l’ha detto».
«Ecco, vedi?»
Erano quasi a casa. «E se vuoi proviamo anche a usare la crema per le ascelle, che ne dici? Così quello scemo dello zio Marco la smette di prenderti in giro».
Ester finalmente sorrise. «Ma pizzica?»
«Macché, non senti proprio niente, vedrai. E poi lo facciamo insieme».

Successe qualche settimana dopo. La sera Ester non aveva voluto guardare la televisione. A scuola aveva avuto il rientro del pomeriggio e i soliti discorsi della madre l’avevano stancata ancora di più. Aveva cenato rispondendo appena alle domande di Antonella e se n’era andata subito in camera, lasciandola sola in salotto ad addormentarsi davanti a Ballarò.
Ester si era svegliata presto la mattina dopo ma era rimasta per un po’ a rigirarsi nel letto. In bagno però si era accorta di quello che era successo. Perché oggi?, pensò. Si stupì di quanto la cosa le sembrasse strana. Sulle mutandine azzurre con dei disegni gialli a forma di banana c’era una macchia, una chiazza larga, vagamente gelatinosa. Rossa. L’aveva guardata come se qualcuno avesse abbandonato su di lei un oggetto non suo. Si era tolta le mutandine, le aveva appallottolate e le aveva spinte a forza sotto al letto. Aveva controllato che non ci fossero tracce fra le lenzuola. Si era lavata e vestita.
Smetti, smetti, smetti, pensava.
Ma com’è possibile che non ho sentito niente, un formicolio, un dolore, pensava.
Ma perché è successo oggi, pensava.
Non aveva detto nulla a sua madre. Avevano fatto colazione insieme, poi Ester era scesa a prendere l’autobus. A scuola non aveva salutato Martina. Martina aveva pensato che Ester fosse offesa per via della festa di sabato e non le si era avvicinata.

Il caldo arrivò all’improvviso. La scuola era quasi finita. Martina e Federica erano diventate inseparabili e a Ester non era successo più nulla. Si era perfino dimenticata di quella mattina, se n’era dimenticata davvero, dopo aver cercato per giorni con grande intensità di non pensarci. La cosa che più la atterriva era il pensiero di doverlo dire a sua madre. Come dirglielo, cosa dirle. Ma per fortuna dopo quella chiazza rossa improvvisa, più niente. Ed Ester si era convinta di averla solo immaginata, si era fatta comprare un altro paio di mutandine azzurre con le banane, identiche, per credere davvero che non fosse mai successo niente. Alla mamma aveva detto che le altre le aveva portate un giorno in piscina, di ricambio, e che le aveva perse nello spogliatoio.
«Ester, allora hai deciso? Io tra un’ora prendo la macchina e vado al mare».
«Non lo so, non ne ho voglia. E poi non mi hai ancora comprato il costume nuovo».
«E vorrà dire che ti metti quello vecchio».
«Ma sei matta? Senza pezzo di sopra?»
Antonella sbuffò. Il primo reggiseno era stata una lotta, adesso andare al mare senza era diventato impensabile.
«Ti presto uno dei miei, avanti, quante storie. Prova a guardare in uno dei due scatoloni sotto al tuo letto, ci dovrebbero essere quelli che usavo nell’altra casa, quando ero magra».
«Sì, sempre le cose vecchie…»
Ester sbuffò. Non aveva voglia di andare al mare, si sentiva sempre troppo grassa, o troppo magra, o troppo fuori posto. Sollevò il copriletto a fiori, si chinò per tirare fuori lo scatolone e le vide. Le mutandine azzurre. Le aveva dimenticate, le aveva dimenticate davvero. Le sfiorò e ritrasse la mano. Le era sembrato che si muovessero.
«Allora vado io in bagno, ciccia. Quando trovi i costumi dimmelo che ci guardiamo insieme, ne cerchiamo uno che ti stia».
Toccò di nuovo la stoffa azzurra, scostò il lembo con l’elastico giallino. E le vide. Erano moltissime. Minuscole, frenetiche. Si agitavano smaniose, come uscite dal nulla. Le formiche coprivano completamente la macchia, tanto che sembrava che fossero loro, la macchia. Ester per un secondo pensò di aver sognato il sangue, immaginò che da lei non fosse uscita la macchia rossa ma quelle formiche, tutte quelle formiche brulicanti, quella materia lucida e mobile. Restò per qualche minuto incantata a guardarle.
«Allora? Hai trovato lo scatolone?» Le gridò Antonella dal bagno.
«Sì, sì. Arrivo».
Ester tirò fuori la scatola e abbassò svelta il copriletto.

Al mare si sdraiarono vicine, Antonella ed Ester. Stesero gli asciugamani uno accanto all’altro. Il sole era tiepido, confortante. A Ester, con gli occhi chiusi, sembrava di vedere le formiche agitarsi dietro le palpebre.
«Mamma, io credo che mi stiano per venire».
Antonella si sollevò su di un gomito.
«Davvero ciccia? E come fai a saperlo? Quando succede, succede all’improvviso».
«Sì. Ma lo so perché vedo le formiche quando chiudo gli occhi».
«Ma che dici, sciocchina, le vedono tutti le formiche quando si chiudono gli occhi davanti al sole. Certo, ti verranno presto, questo lo so anch’io».
«Sì, ma io lo so di più».
Ester tenne gli occhi chiusi, non guardò sua madre e la sentì lontana, come se non fosse più sdraiata accanto a lei. E senza guardarla le sorrise.

© 2007 Elena Battista