Avevo notato i bambini prima di far caso alla madre.
Camminavano sulla riva del mare con un’andatura marziale che aveva qualcosa del passo saltellante del padre adottivo, ma che doveva essere anche la ripetizione di un incedere praticato in tempi remoti, quando parlavano un’altra lingua ed erano reclusi in orfanotrofio.
Caterina Falconi
Tenevano il passo. La femmina davanti e il maschio dietro. Mangiavano la sabbia con le lunghe gambe spingendo i corpicini in una marcia, le braccia magre flesse, gli occhi celesti accesi di una soddisfazione estemporanea ed esasperata. Mi facevano impressione. Soprattutto la femmina, per lo splendore adulto del faccino dilatato dallo stupore e dal trionfo.Il maschio sembrava più frastornato e meno aggressivo. Aveva un braccio atrofico e tendeva ad incurvarsi da quel lato, come se volesse difendersi da un nuovo assalto della vita. All’epoca ero un giovane psicologo tirocinante arrapato e confuso. Per sbarcare il lunario facevo un po’ di tutto: il barista, l’animatore, il baby-sitter ai figli di mia sorella.
Kay e Gerda avevano una baby-sitter acneica e procace che doveva essere oggetto delle attenzioni del padre adottivo, notaio glam, erotomane e scombinato.
La madre adottiva era una tipa snella e ossigenata. Adrenalinica e incasinata. Qualche volta la incontravo per il paese, che camminava davanti ai bambini nella morsa di una minigonna inguinale, le gambe lattee che sgusciavano con una morbidezza che mi provocava un’erezione istantanea e imbarazzante. Kay e Gerda la seguivano, per niente immusoniti dalla disattenzione della signora, contenti di avere una scia da calpestare. Sembrava che tra quei fratellini ci fosse una complicità collaudata, che doveva affondare le radici in una sofferenza interrotta e sepolta.
Sulla spiaggia passeggiavano da soli. Sorvegliati da lontano, si fa per dire, dal padre notaio figaccione, che accosciato sul bagnasciuga ostentava una rilassatezza che non c’era. Provavo una strana fascinazione per quell’uomo. Sembrava il remake di un personaggio di Oscar Wilde. C’erano parti di lui, come il doppio mento, la pelata, la pancetta, che avevano ceduto. Ma nel complesso conservava una compattezza vellutata sorprendente, per i suoi quarant’anni.
Una mattina che mi trovavo nei paraggi del suo studio l’avevo osservato entrare e uscire dal portone, fare teatrini, abbordare le donne, e avevo pensato che tutta la sua vita doveva essere così, sopra le righe e dispersiva.
Eppure c’era qualcosa di severo e pedante in fondo ai suoi occhi miopi. Uno sguardo da bambino permaloso che forse affiorava lontano dai riflettori.
La madre di Kay e Gerda si chiamava Marcella e aveva trentadue anni.
Scopammo torridamente per nove mesi. L’occasione ce la diede la bambina, una settimana dopo la mia assunzione a tempo determinato nel team psicopedagogico della scuola elementare “E. De Amicis”. Era il mio primo vero incarico e io ero fradicio di insicurezza. Kay frequentava la seconda. Gerda la terza. Alla fine delle lezioni scendevano e precipizio le scale in un’orda di bambini dalle bocche ferrate dagli apparecchi ortodontici. Gerda si notava per la sua biondezza e per l’abitudine di sferrare pugni nelle schiene dei compagni.
Quella fatidica mattina la direttrice mi fece chiamare. Dovevo occuparmi di una faccenda delicata, che tradotto nello slang del bidello mastino suonava: «Dottò tenete da jì in direzione che è successo nu casine».
Salii le scale oppresso da un senso di ineluttabilità.
La luce bianca di novembre inondava i corridoi. Rarefatta, implosa. In direzione Marcella e la bambina sedevano rigide ai lati della scrivania. La direttrice torreggiava davanti a loro su una poltroncina girevole, con un sorriso da gendarme e gli zigomi lustri di terra abbronzante.
«Entri entri dottore, si accomodi…» Mi invitò. E si interruppe. Era una donna ovvia e menefreghista, tutto sommato indulgente. Grande amica della suocera di Marcella e perciò terribilmente a disagio in quella circostanza. A quanto pareva dovevo essere io a risolvere il casino, qualunque esso fosse, improvvisando dei provvedimenti che avessero una parvenza di assennatezza e non ledessero nessuno. Sedetti su una poltroncina tra la bambina e la madre, nella posizione di uno stitico in fase espulsiva. Le mani mi sudavano. Sapevo che dall’esito di quella prova sarebbe dipeso il rinnovo del mio incarico. La direttrice iniziò a parlare con un tono neutro. Spremeva fuori le parole con una lentezza esasperante. Io ero sull’orlo di un attacco di panico ma tenevo duro. Avrei fatto fronte alla situazione a costo di svenire con gli occhi aperti, senza smettere di annuire come un pupazzo a molla. Quando realizzai cosa era successo la mia ansia si sgonfiò come un palloncino. Gerda aveva morso, e neanche tanto forte, la mano di una compagna che l’aveva sfottuta. La compagna si era ritrovata un morso tra il pollice e l’indice, e Gerda aveva avuto una crisi di nervi. Avevano telefonato ai genitori. Quelli della bambina insolente avevano sdrammatizzato. Marcella si era dovuta precipitare a scuola perché Gerda non si calmava più. Me la cavai con quattro frasi di circostanza. In un automatismo libresco. Qualcosa mi diceva che dietro quella storia raschiava un dolore insopportabile per una bambina di otto anni, ma non stetti a pensarci. Marcella si era girata verso di me e aveva spinto le cosce in fuori. La minigonna di camoscio si era arricciata sul bordino siliconato di un’autoreggente, e la mia agitazione si era mischiata ad un calore inopportuno.
Meno di quarantott’ore dopo mi affannavo sul corpo latteo di Marcella. Era liscia e fresca e attizzava i miei istinti peggiori. Voleva che la leccassi, l’ammaccassi e la penetrassi in tutti i modi. Intrecciava le dita di una mano alla mia e mi lasciava libero di infierire come volevo. Intanto mi guardava. Con le lunghe gambe aperte e il sesso rasato e umido offerto. Avrei dovuto sforzarmi di decifrare quello sguardo opaco, ma ero talmente imbestialito e intenerito dall’arrendevolezza di Marcella che sapevo solo scalpellarle in corpo con la frenesia di uno schiavo entusiasta.
A ventidue anni di distanza da quella storia di sesso vorace mi capita di dirmi che forse sarebbe bastato osservare la bambina, quella mattina in direzione, prima di insinuarmi nel solco tra le cosce accavallate della madre… sarebbe bastato guardarla con attenzione e lasciarmela scivolare dentro, per capire come avrei potuto aiutarla.
Invece glissai sul suo visetto corrucciato perché era piccola, sfigata e d’intralcio… Perché ero stato così presuntuoso da credere di poter rimandare. E dopo… è stato semplicemente troppo tardi.
La pioggia batte sulla mia finestra come nella canzone di Neffa. Devo avere un po’ di ipertensione. Batte la pendola nell’anticamera del mio studio di analista affermato. Batte questo rimorso nel mio petto. Socchiudo gli occhi e il lettino sul quale faccio stendere i pazienti per insegnar loro a non essere stesi dalla vita, si sfoca, vacilla. Tra un po’ dovrebbe arrivare Gerda. Mi chiedo come sia diventata.
Marcella era una donna fine e prevedibile, un po’ presuntuosa, noiosissima. La sua nevrosi un cliché da romanzetto. Ripensando a lei mi dico che sapeva fare bene i pompini, ma poi non riesco a ricordare il suo odore. Per lei il sesso era un fatto epidermico e di clitoride. Dentro restava la bambina imbronciata tanto simile al marito. Ci vedevamo da lei, mentre il notaio era in studio. I bambini erano sempre fuori con qualcuno. Dopo mi restava sulla pelle una sensazione di spreco. Rotolammo così fino a luglio. Tra amplessi e giochi sempre più spinti e pause vibranti di stordimento e aspettativa. Il paese brulicava di villeggianti. Ogni pomeriggio una porzione di strade veniva chiusa, adibita a isola pedonale e inzeppata di bancarelle e palchi. Mercatini dell’antiquariato. Mercatini etnici. Concerti… I turisti passeggiavano tra la paccottiglia esposta. Spingevano passeggini. Reprimevano un’insoddisfazione piena di denti. Acquistavano robetta da poco. L’estate era in stanca.
Un sabato sera i librai locali allestirono una festa del libro per ragazzi. Piazzarono uno strano scivolo meccanico e due canotti pieni di pesci di gomma davanti al capannone dei libri, tabelloni tempestati di fogli formato A4 da imbrattare con le tempere davanti alla libreria del centro, espositori carichi di tascabili sui marciapiedi del corso, e aspettarono di vedere cosa succedesse… Faceva un caldo che spezzava il respiro. L’aria era un brodo denso. Il tempo era rallentato. Passeggiai tra gli stand e le famigliole abbacinato dalla stanchezza. Per tutta la mattina avevo provato a stuprare Marcella con la sensazione che fosse lei a violentare me, che quello spingerle in corpo un cilindro di carne provvisoriamente rigido vellicasse la sua ingordigia. Lei estrofletteva, semplicemente, il surrogato della fame che doveva averla prosciugata tanto tempo prima.
E io sentivo il bisogno di innamorarmi di una ragazza che fosse schiva e complicata, l’opposto di Marcella, e una sfida per me.
La festa del libro in un paese come il nostro non poteva che essere un fiasco. Poco afflusso. Bambini pascolati da madri interrotte lessicalmente, interferite dall’ovvietà, dalla fatica e dall’invidia. Ostili alla cultura e ai suoi annessi. Imboccai una traversa per uscire da quel casino sciatto, ma la festa si insinuava anche lì. Davanti a una cartoleria un ragazzo accigliato vestito da pagliaccio teneva lezioni di circo a due bambine impietrite dalla timidezza.
«Questa figura si chiama gatto. Quest’altra fontana». Spiegava, facendo roteare della palline da tennis.
«Volete provare?» E le due bambine facevano segno di no con la testa. Avevano lunghi capelli castani raccolti in una coda alta, e nasetti all’insù, e sedevano tutte sul bordo del marciapiede. Il clown era perplesso. Il circo un foularone smeraldo e rubino attaccato con lo scotch a un persiana dietro di lui. Sedie pieghevoli di plastica erano accatastate contro la facciata del palazzo, accanto al foularone scenario. Tutta la situazione era surreale. Era finta. E si sfaldava dentro e fuori di me, che mi sentivo inconsistente e perduto.
Sedetti sul marciapiede vicino alle bambine. Altre persone affluivano lentamente. Zombie del cazzo. Il clown si era messo ad annodare palloncini tubolari. La cosa sembrò rianimare le bambine che chiesero un bassotto rosso e un orsacchiotto col cuore, possibilmente celeste.
Ero disgustato.
Cosa cazzo c’entrava quello pseudoclown con i libri e con me che facevo tutt’altro da mesi? …Ma tutt’altro da che? Non riuscivo più neanche a focalizzare cosa fossi stato all’inizio e a cosa mirassi prima di sperdermi tra le cosce di Marcella e in quella sua fisicità febbrile.
Mi girai verso l’imbocco del corso e la vidi arrivare con i bambini. Come se il solo pensarla l’avesse evocata.
Mi sembrò una cosa normale.
Erano mesi che avevo la sensazione che la mia vita, e la vita in generale, non avesse più spessore. Non c’era più mistero e persino una botta di culo o una coincidenza diventavano un innesto insignificante tra le grinze fruscianti di quelle ore asciutte.
Marcella raggiunse il foularone e mi si piazzò davanti a gambe un po’ larghe. Indossava un vestitino a roselline con un push-up incorporato che le sollevava le tette e le ricadeva leggero sulle natiche. Era uno schianto. Un invito burroso. Distolsi gli occhi da lei per rintuzzare un’erezione dolorosa. Kay e Gerda osservavano il clown. Gerda con la faccia dilatata dal suo entusiasmo esagerato. E Kay più assorto. Si era fatto un bel bambino. E il braccio atrofico mi faceva pensare all’ala da cigno rimasta attaccata alla spalla del principino di una certa favola.
Un mese dopo lavoravo a Sassari. Tra i frantumi di un passato complesso e la speranza di potermi riassemblare piano piano, come un puzzle in 3D.
E da allora sono passati ventidue anni. Ho fatto carriera. Sono persino diventato uno psicanalista famoso.
Torno qui per aprire uno studio e una irriconoscibile Marcella mi viene a trovare. Ha qualcosa di laido, adesso che è rugosa e in sovrappeso. Mi dice: «Francesco, ti ricordi di mia figlia? Sono così preoccupata per lei…» E sciorina una storia di tossicodipendenza e autolesionismo.
L’ascolto frastornato da un inutile senso di colpa.
Accetto di vedere la ragazza.
«E Kay?» Chiedo poi, per allentare la tensione.
«Adesso fa il notaio. È subentrato al padre. È un ragazzo molto bello, se non fosse per quel braccio…» Risponde Marcella.
Per l’ennesima volta mi chiedo perché accada così tra fratelli, che la malattia mentale ne artigli uno e risparmi gli altri.
Quel pomeriggio alla festa del libro avevo osservato Kay e avevo intuito che stava imparando a proteggersi e custodiva un tesoro.
Ne ero stato invidioso e lo avevo imitato. Imitare un bambino… eppure è stato lasciando sua madre e riformando una scorza che ho ricominciato a sentire la vita tamburellarmi piacevolmente addosso.
Suonano alla porta. In petto mi scoppia una bolla di apprensione. Vado ad aprire. Sul pianerottolo c’è una ragazza alta, massiccia, con una cresta di capelli biondo grano sulla testa rasata. Le orecchie crivellate da cerchietti. Un chiodo nel naso, uno sotto il labbro inferiore. Il volto minuto, cesellato, stupendo. Il corpo di un toro. Canotta nera sbrindellata e jeans borchiati. Anfibi slacciati. Sulle braccia i segni delle rasoiate.
Mi sorride timidamente e incassa la testa tra le spalle.
“Sei già a questo punto”, penso, ma l’accolgo dicendole con dolcezza: «Lei dev’essere Gerda Palma. Si accomodi».
Il Minotauro capovolto annuisce. È così pallida che sembra d’argento. Mentre le faccio strada nell’anticamera e poi nello studio mi dico che è troppo tardi. Cazzo, ho visto come cammina. Come se dal collo in giù la sua carne facesse resistenza ai comandi della testa. È scissa, spaccata.
Piomba a sedere sul lettino.
«Non ce la faccio a stendermi». Mi fa. Mastica una cicca. Una spellatura le deturpa il collo.
«Non fa niente», la rassicuro.
«Certe volte mi faccio del male». Continua lei incurante della mia benevolenza. «Mi taglio». E mostra i segni sulle braccia.
Parla al rallentatore, guarda fisso, si muove male. Come se lo stupore e l’entusiasmo di un tempo le fossero marciti dentro, e la meraviglia fosse diventata un’incredulità che paralizza. Adesso ha una tale paura negli occhi che mi sento risucchiare. Mi ripeto che non posso più fare un cazzo per lei, e invece affondo nel suo sguardo celeste.
«Mi parli di questa sua voglia di farsi del male». Le dico. Ed è come se l’avessi presa per mano per entrare insieme, goffamente, in una nuova storia. ♦
© Copyright 2007 Caterina Falconi (originariamente pubblicato su "Fernandel" n. 59, gennaio-marzo 2007).