È
già buio quando l’aliscafo mi deposita sul pontile, così devo precipitarmi verso l’abitato senza poter guardare intorno. È questa la strada per la piazza? Non ce n’è altre. Macino la salita con le infradito captando ambienti e penombre che mi chiedono di indugiare. Sono l’unico che si affretta in questo posto baciato dalla flemma ma non posso rischiare che mi chiuda il negozio. Non sono ancora sbucato sulla piazzetta che vedo il retro del negozio. Illuminato! Rallento, espiro, giro l’angolo.
Elio Paoloni
«Non è un racconto, questo: è un resoconto scritto a caldo perché volevo restare dentro l'esperienza, non volevo che evaporasse. In effetti mi ha aiutato a trattenere i dettagli, le sensazioni, i suoni. Pensavo anche, mentre lo scrivevo, ad amici a cui trasmettere quelle emozioni, perciò gli ho dato una forma che non fosse quella di una serie di appunti. Diversi amici mi assicurano di essere stati coinvolti, quindi ho pensato che poteva coinvolgere anche altri».
«Mi servono due scarponi».La signora minuta coi capelli corti mi guarda di sguincio: «Per il top?»
Annuisco.
«Ma non si può andare».
«Con la guida sì».
«Non di notte».
«Anche di notte, con le guide autorizzate».
«E come si chiama la sua?»
«Non me lo ricordo».
Sorride, col capo inclinato e le sopracciglia inarcate.
«Mica lo conosco. È solo un numero di telefono».
Vabbè, il suo dovere di dissuasione l’ha fatto, mi chiede che numero faccio e mi fa strada nel terrazzino sul retro. Mi siedo sul divano di pietra per provare lo scarpone che mi porge.
«Ha un pile?»
«Ma se sto sudando come un maiale».
«C’è vento là».
«Ho questa». Apro la lampo dello zainetto.
Saggia tra le dita lo spessore della giacca a vento.
«Non basta». È materna, nonostante il terzo grado.
Affitto anche il pile e chiedo se ci sono mezzi per l’Osservatorio.
«Chieda al bar».
Chiedo al bar e dopo un minuto sto litigando al telefono con uno degli apetaxi che vuole quaranta euro. Alla fine mi consiglia lui stesso di cercare Pino, quello dell’Ape giallo: ha una convenzione con l’Osservatorio, mi farà trenta euro. Trovo l’Ape giallo ma non Pino. Mi affaccio alla finestra illuminata di un’associazione culturale e chiedo lumi. Mi rimanda sulla strada: di fronte a un bar c’è l’abitazione di Pino. Entro in una corte e qualcuno va a chiamare l’autista. Viene fuori un pirata con i capelli ricci e duri fino alle spalle.
«Deve farmi uno sconto perché sono solo».
«Io ci devo andare, più tardi. Se puoi aspettare ti faccio quindici euro».
«Non ho fretta». Ora no. Seduto su un muretto mi godo la piazzetta, con la chiesa di sguincio, il bar tra le scalette che scendono ai vicoli e il mio negozio, ormai chiuso ma illuminato. Se non ci fosse la luna non vedrei nient’altro: l’illuminazione stradale non esiste e anche le case e i locali sono senza lampioncini, proiettano solo luci interne. Ma la luna è piena e c’è un mare di latte sotto la balconata. Mentre il sudore mi asciuga addosso assorbo la rilassatezza del posto. La gente si muove a piedi, qualcuno è scalzo: a settembre i ritmi somigliano già a quelli secolari dell’isola. Il vulcano si incarica di radunare e scatenare tutte le pulsioni, così i residenti sono liberi dai pruriti, dalle smanie, dai sussulti. Qualche veicolo elettrico si muove piano, silenziosamente. Mi piacerebbe anche senza la luna. Ho una memoria, forse costruita, di un mondo così, il mio mondo naturale. Arriva Pino e mi sistemo sui sedili dietro. Scendiamo tra le case per alcune decine di metri, poi l’Ape aggredisce la salita urlando. La stradina diventa un viottolo, pochi centimetri da un lato e dall’altro del tre ruote che rolla e beccheggia. I fari sembrano inventarsi la strada, scavarla all’istante, ogni tanto le sponde del cassone urtano un muretto. Per fortuna non scende nessun mezzo, incrociamo solo gente a piedi, con le torce o il faretto da minatore. A tratti una canna frusta l’interno dell’abitacolo. Si apre uno strapiombo sotto il cassone sobbalzante. Ancora canne, poi arriviamo.
«Ma quanto dura un motore, qui?»
«Non più di una stagione. E poi balestre, tutto».
L’Osservatorio della Marina è andato distrutto in un'eruzione. Ora c’è un ristorante dove si può cenare all’aperto a lume di candela e godersi gli spruzzi dei crateri, con il mare alle spalle. «Il Geco non c’è ancora» mi dice un pingue ragazzo biondo con la maglietta bianca da cameriere «si sieda dalle parti del cannocchiale e si veda qualche eruzione, le porto qualcosa da bere». Osservo la zona dei crateri e subito vengo gratificato da un fiotto. C’è gente, troppo da fare, così la promessa di bevande non viene mantenuta. Ogni tanto mi alzo, passeggio, ascolto i discorsi. Le voci sono basse: gli avventori sono stranieri, o settentrionali. Arriva un uomo insieme a quattro ragazze. Sarà lui? No, ricordo un ragazzo con tanti riccioli, non può essere lui. Chiedo al cameriere e lui dice sì, è arrivato. In quel momento l’uomo incrocia il mio sguardo e mi chiede se sono Fabio. Non sono Fabio, guardo il cameriere per delucidazioni, lui si corregge: No, non è arrivato. Me ne torno alla mia sedia ma dopo un po’ l’uomo alto mi si avvicina e mi chiede se sono l’amico che aspettava: aveva confuso i nomi. Mi presenta a Francesca, Marina, un’altra Francesca e Alice. Intanto ripenso alla prontezza omertosa con cui il cameriere, quando non ci eravamo riconosciuti, aveva cambiato versione sulla presenza del Geco.
Il Geco è di Bolzano ma ha sempre passato le sue vacanze qui, nella villa dei genitori, e una volta laureato non ha voluto vivere lontano da qui. Lascia l’isola solo ad agosto e un paio di mesi in pieno inverno.
«Da piccolo lessi un libro sui vulcani e mi chiesi come faceva la gente a vivere sotto un vulcano attivo. Ecco come fa» e allarga le braccia a comprendere il cibo, la luna, l’aria, le ragazze, la gente, le luminarie in alto.
Le ragazze mi consigliano la pasta col pesce. È ottima. Ma a quella ci sono abituato, prendo quella che ordina il Geco, stromboliana, o eoliana. Ottima, con magnifiche olive diverse da quelle che conosco. Nonostante il vino della casa si incomincia a sentire fresco: infilo il maglioncino di cotone, il Geco tira su il cappuccio della felpa, Marina ha già una sorta di turbante. «Ehi, ho trovato due buste». Roberto era a mangiare una pizza con la famiglia, ma quando ha capito che andavamo su ha deciso di aggregarsi. Stanno per scadere i suoi sessanta giorni sull'isola, quelli che racimola a Torino lavorando di continuo (è vigile urbano) e accumulando riposi per poter dedicare due mesi al suo giardino di piante autoctone (una bottiglia piena d’acqua per innaffiare è il pedaggio chiesto a ogni visitatore). Non ha nulla di pesante appresso, perciò le buste di plastica indossate sotto il maglione lo terranno caldo.
«Guarda queste scarpe». Mostra al Geco le suole di un paio di scarpe sportive leggerine. Il Geco gli concede un’occhiata poco convinta: «Se non hai problemi con le caviglie». «No, no, ho solo un’infiammazione al metatarso».
Mentre aspettiamo il caffè comincio a infilarmi le due paia di calze. Decido di tenere i pantaloni corti: preferisco i graffi alla stoffa che stringe le ginocchia.
Sono le undici e mezza. Mi muovo, cammino, eccitato, impaziente. Di solito alle dieci sono già a letto ma in una notte così potrei salire fino alla luna.
Siamo fuori dal ristorante, aspettiamo Roberto che non ne è ancora uscito.
«Basta, mi son rotto le palle». La nostra guida si avvia.
Il sentiero è buono: c’è un selciato e la pendenza è regolare, come la frequenza di tornanti. Sentiamo i ragazzi di Roberto che ci chiamano. Urlando. Proseguiamo. Dopo un po’ il Geco si ferma: Roberto, li fai star zitti tu o li butto giù dal monte io?
Silenzio. Camminiamo. Il Geco si ferma e depone lo zaino per sfilarsi la felpa. Io e Alice continuiamo col passo lento. Poi devo fermarmi per riallacciare uno scarpone. Levo il maglione. Gli altri ci raggiungono.
«Non andate più avanti da soli, su ci sono passaggi brutti».
«OK».
Ci raggiunge anche Roberto, la borsa da mare della moglie a tracolla. I crateri continuano l’attività. Adesso siamo già un po’ più vicini. Gli zampilli appaiono appena un po’ più grandi ma quello che cambia è il dolby: forse perché c’è più silenzio, incomincio a distinguere diversi tipi di boato. Questo parte con il rombo di un aereo, poi ruggisce.
A una svolta due fotografi armeggiano in piedi vicino ai cavalletti. Un’eruzione è accompagnata da una detonazione secca. Forte.
Il sentiero è più sconnesso. Non mi volto neanche più a guardare le eruzioni. Mi concentro sul suono. I boati, i soffi, i brontolii. A volte c’è un soffio prima, a volte dopo, a volte prima e dopo. Certi soffi sembrano sospiri, seccati, impazienti. Ci sono fucilate secche e brontolii sordi che sembrano farsi strada dal centro della terra. Tutto questo trasmette molto più delle luminarie. Ci fermiamo appena, quando erutta, ma ogni volta emetto un verso: espiro con una specie di oh gutturale, da carrettiere. Non è un commento, è una risposta che mi viene strappata. Un respiro di risposta al respiro di Struògnoli.
Un altro tornante: su un lastricato di forma quadrata cinque o sei figure già distese nei sacchi a pelo. Da lì il sentiero si restringe. Trenta metri ancora e il Geco molla lo zaino. Ci sediamo davanti alla sciara. I barcaioli vendono ancora quella del ’93, chiamandola ‘di Fuoco’, ma è una sciara bianca, quasi di pomice, quella che resta. Materiale vecchio. È una frana leggera e continua, anzi intermittente. Si possono sentire i primi sassolini che rotolano, poi gli altri che si uniscono e il rombo più forte. A volte continua per molti minuti. Quello che non sentiamo è il tonfo in mare, anche se vediamo il cerchio largo nell’acqua. Il silenzio che si instaura dopo le frane, dopo che, sforzandoti di captare l’entrata in acqua, hai teso al massimo l’orecchio, è assoluto, maestoso. La maglietta è fradicia ma non voglio sfruttare adesso quella di ricambio. La stendo su un cespuglio. Tiriamo fuori le bottiglie d’acqua. Qualcuno si stende sugli zaini. Dopo un po’ faccio lo stesso. La sciara si è fermata. Ogni tanto un tac isolato.
Sentiamo voci. Tedeschi, sembra. Scende una coppia, torce accese.
Struscio di scarponi: il Geco si rialza. Riacchiappo la maglietta e mi accodo. Adesso il sentiero si inoltra tra gli arbusti, scavato dall’acqua, strettissimo e tortuoso. E ripido: respiro pesantemente, sudo. Incominciano gli scalini di roccia alti, occorre appoggiarsi con le mani, a volte. Poi un tratto farinoso.
«Adesso proseguite ben distanziati. Qui le pietre cedono».
Infatti rotolano.
Ora di fianco al sentiero c’è uno strapiombo. Forse – a scivolarci – ci si può arrestare nei punti più sabbiosi piantando i piedi. Oppure si può continuare a rotolare fino alla pietra definitiva. O fino a mare, pietra rotolante come qualsiasi altra della sciara. «Siccome c’è stata moria» aveva spiegato un barcaiolo a Vulcano «il sindaco ha fatto un’ordinanza. Adesso ci sono solo tre guide autorizzate». «Bene, contattiamole» avevo detto. «Non prendono più prenotazioni da noi. Magari c’è mare, noi non partiamo e quelli perdono la giornata quando sull’isola c’è la fila». È per questo che adesso, anche se forse sarebbe il caso, non usiamo le torce: il soccorso alpino della finanza pattuglia la zona. Questo termine veterinario, moria, me lo rigiro in testa da giorni ridacchiando. Sembra alludere a un’epidemia, come in Totò e Peppino: siccome che c’è stata la moria delle vacche, come voi ben sapete.
Su una parete brulla ci sediamo ancora, spalle alla montagna. La luna è dritta sopra di noi, appena dietro. Guardiamo la distesa d’acqua, le luci di tre o quattro barche. Mare. Mare chiaro. Altre terre. Sento puzza di zolfo, ma non so se è il vulcano o il mio sudore impregnato dal fango di Vulcano in cui mi hanno convinto a immergermi. Non c’è doccia che tenga per i pori impregnati.
Ci rincamminiamo, senza vedere quello che c’è oltre la parete ripida. Ci sono i muretti, dopo, quelli famigerati, che avrebbero dovuto proteggere gli spettatori, come se il vulcano sparasse tese cannonate. Ci sediamo un attimo, perché i crateri sono prossimi, nascosti da una dorsale, poi proseguiamo verso manufatti che vorrebbero essere più seri, gli shelter portati su dagli elicotteri. Sono bunker aperti dietro. Il Geco raccomanda di stare bassi: dal paese quella zona è in piena vista e con la luna i profili dei camminatori spiccano. Quando raggiungiamo i ripari do un'occhiata all’interno. Non ci sono feritoie. Allora? Uno dovrebbe mettersi al riparo all’occorrenza. Ah.
All’esterno di uno shelter c’è una massicciata. Ci si sdraia. I crateri ora sono quasi alla nostra altezza. Una breve sosta tecnica, penso, invece si accendono sigarette. Il Geco si chiama così perché da piccolo passava il tempo a catturare gechi. Ma anche perché, del geco, ha la capacità di stare immobile indefinitamente, incollato a una parete, magari. La vicinanza dei crateri mi rende sempre più impaziente. Contemplo una bomba del ’93. È di quelle a crosta di pane, credo, lunga tre metri, alta uno. Non sono per niente convinto che il cemento avrebbe resistito all’impatto. Beviamo. Rimetto il maglione. Intorno, declivi marziani. È qui che hanno girato la scena di Caro diario – mi rende edotto Roberto – quella con l’amico che chiede ai turisti stranieri notizie sul finale della soap.
Si riparte, finalmente. La salita è più dolce, siamo su un crinale non troppo ripido e non troppo cedevole. Da un lato, raggruppate all’inizio di un vallone, intravediamo figure bianche, anime vaganti. L’apparizione spaventa Marina. Allucinati come siamo, io per l’ora tarda, gli altri non so, non ci sembrerebbe fuori luogo un pourparler dantesco. Sono capre inselvatichite. Da un sentiero che incrociamo arriva una coppia, senza torce. Si uniscono a noi, anzi ci sorpassano vociando allegri. Dopo un po’ sopra però vediamo qualcuno correre, una torcia ruotare. Il Geco stoppa e ci intima silenzio. Restiamo in attesa. Sospesi sul crinale, sospesi nel chiaro di luna, sospesi nel sonno. Un grillo. Che ci fa un grillo su Marte? Dopo un minuto di silenzio, tranquillizzati, ripartiamo. Sopra, vicino all’ultimo shelter c’è un amico del Geco. Accompagna una turista rotondetta che ha i bastoncini da trekking ma indossa scarpe basse, senza protezione per le caviglie. Adesso il vento si sente. La turista, che parla inglese, si ripara dietro lo shelter per cambiarsi e indossare indumenti più pesanti. Anch’io tiro fuori il giubbino. Non ha più senso utilizzare la maglietta di ricambio gelosamente riposta nello zaino: durante la sosta precedente il sudore mi si era asciugato addosso. Indosso la giacca a vento. È di un beige chiarissimo, di marca, ed è pure un prestito. Che fine farà in tutta questa fuliggine? Decido di indossarla sotto il pile a noleggio, che è blu, poi mi accoscio con gli altri al riparo dell’eliporto. Il Geco non ha fretta. Non ha mai parlato tanto. Parla anche in tedesco, la turista verrà dalla Germania, nonostante la pelle scura.
Sento i crateri, a sinistra, vicinissimi ma seminascosti dal bordo concavo del Pizzo. Vedo chiaramente la strada, il crinale sabbioso che porta alla cima. L’inizio è in discesa. Ho la tentazione di correrci sopra, come ha fatto la coppia che ci precedeva ma mi costringo ad aspettare. Finalmente si riparte. In pochi minuti siamo sul Pizzo e buttiamo gli zaini.
Eccoci al balcone.
Non riesco a trattenere degli sciocchi ooh da fumetto. Penso ad altri balconi ambiti, quelli sul Palio, sul circuito di Montecarlo, sull’Encierro. Buttateli via. Ho affittato, al costo di qualche litro di sudore, il balcone sulle viscere della terra, sull’origine del pianeta, sulle forze primordiali, sulla fucine di Vulcano. Eccoli là. A sinistra la piccola lingua di fuoco perenne dalla quale vengono fuori zampilli stetti verticali, getti di fontana. E sulla destra il cratere ampio, rotondo, che erutta a raggiera. Ce ne sono altri di crateri, me li indicano, ma stasera, di turno per me, ci sono questi due.
Resto in piedi, forse rispetto, timor sacro, forse solo troppa eccitazione. Poi faccio come gli altri: spazzolo un po’ di cenere (non alzare polvere – mi sfotte la guida della tedesca – che dovrai mangiarne parecchia in discesa) e poso il culo sui trenta gradi del Pizzo. Riscaldamento centrale. Dal centro della terra. Non è più solo questione di spettacolo pirotecnico a distanza, è come se la lava mi passasse sotto prima di trovare sfogo. L’energia si trasmette, sono inserito in un enorme caricabatterie.
Gli zampilli di sinistra sono abbastanza regolari: la forma è quasi sempre la stessa, somiglia alle vampe di un accendino regolato al massimo, anche se il flusso è a volte più compatto, a volte meno. Ma, come le fiammate di un accendino, i getti sono repentini, violenti, il fragore ti coglie sempre di sorpresa, sibilo e boato insieme. L’altezza è sempre superiore a quella del nostro balcone, E ogni volta sussulto, ogni volta un gemito in inspirazione.
Quello di destra ha fiotti più lenti, non sempre puntano verso l’alto, uno, un morbido ovale, si dirige lateralmente verso il cratere gemello. A volte piccole rose di lava sono accompagnate solo da soffi, senza grandi fragori. A volte il fragore c’è, e ti squassa. I lapilli ricadono tutto intorno creando un letto di brace intorno ai crateri possiamo sentire, remoto, l’acciottolio degli ultimi a cadere (prima ci sono ancora echi del frastuono). Nel giro di una quindicina di secondi tutto si spegne, i coni ridiventano neri e di nuovo ci ritroviamo a guardare il mare, mentre granelli di fuliggine ci ricadono sopra, attorno, con un picchiettio appena percettibile.
Se negli ultimi tratti della salita ero dominato dal timor sacro, adesso la hybris ha il sopravvento, mi sento più prometeico. Siamo qui, pochi eletti, per accumulare tutta l’energia delle forze primordiali. Siamo qui per il fuoco, che gli dei – e l’ordinanza del sindaco – vogliono nascondere. Ma non recheremo nulla ai nostri simili, le fotocamere sono inappropriate e infedeli, e ho pure dimenticato di selezionare la modalità Fireworks sul menu.
Roberto parla, non smette mai. È simpatico ma adesso non voglio questa colonna sonora, non tollero altro suono che quello di Iddu. Anche un fruscio di suole mi dà fastidio. Mi sposto verso ponente ma non bastano venti metri per abolire una voce, quassù.
Ritorno sul mio zaino. Qualcuno passa del vino in una bottiglia di pvc tagliata a metà. Dopo tre eruzioni Roberto tace.
Tra questi valloni di brandelli lavici si è su un altro pianeta, un pianeta in formazione, oppure trasportati nel tempo sul nostro pianeta agli albori. Eppure non mi sono mai sentito nel mio elemento come adesso. L’attrazione dell’inorganico. Un inorganico stranamente vivo, però, un processo di cui faccio parte: partecipo ai borborigmi della terra madre. Il fragore incute rispetto – ci sono deità che è bene non irritare – ma sento anche la fierezza del confronto, come un sangiorgio davanti al drago (tanto per riportare in sacrestia tutto questo paganesimo).
Qualcuno arrotola cartine. Solo tabagismo snob o si avverte odore di erba? Difficile dirlo, con tutto questo zolfo. L’amico va via, ci affida la tedesca. Marina scende con lui: vuole riservarsi anche lei un paio d’ore di sonno. Ci bacia. Va via anche la coppia che ci aveva preceduti.
Tiro fuori il cappuccio dal colletto, spazzolo ancora sotto e intorno a me e mi distendo appiattendomi al suolo per catturare il tepore mentre la brezza fredda mi passa sopra. Ogni scoppio continua a carpirmi questo mio verso tra il rantolo e il lamento. Negli intervalli mi perdo in un assopimento vigile.
Francesca si alza, stende le braccia in croce: «La luna, le mestruazioni, il fuoco, il mare. Non potrei essere più piena di così».
Mi giro su un fianco, mi rannicchio, forse mi assopisco. E succede. Dal cratere grande sboccia una rosa ampia, bassa, densa, e immediatamente dopo, quasi una cosa sola, un’eruzione alta, ampia, enorme, tonda. Eccola. Ci siamo dentro. Quando già i blocchi ricadono a venti metri da noi, ci precipitiamo indietro, annaspando. Ma indietro dove? A dieci passi c’è lo strapiombo e poi è questione di attimi. Era finita prima che fossimo riusciti a sollevarci. Continuiamo ad aggirarci increduli sul Pizzo. Il Geco, consapevolezza, fatalismo o calcolo delle probabilità, non si è mosso. Non so se si riferisce solo a me quando constata velenoso: «Che culo certa gente. Uno arriva qua bel bello, prima salita, e si trova davanti a uno spettacolo che io non ho mai visto in tutta la vita».
La notte è giovane ma il Geco non vuole arrivare in paese a giorno fatto. Ordina la partenza. Non la vedremo da qui l’alba, ma nessuno protesta. Roberto si era allontanato in cerca di un bastoncino perso dalla tedesca. «Stiamo andando?» chiede vedendoci in piedi.
«No, stiamo scappando» rispondo. Ognuno, sono certo, sta pensando che la prossima potrebbe essere un tantino più svasata. Basterebbe a finirci. Eppure non è vera paura: quando mi sono messo carponi per fuggire ho obbedito a un riflesso condizionato, ma la situazione era così esaltante che non mi sarebbe sembrata inappropriata una morte così. C’è stata moria – avrebbe commentato fatalisticamente un isolano.
La via del ritorno è completamente diversa, scendiamo dall’altro lato, dritti verso l’abitato, nella farina grigio scuro. La polvere sollevata nella semioscurità dagli scarponi sembra vapore. Anime perse in un limbo. Il geco e la turista colloquiano in tedesco. Commentiamo ancora la palla di fuoco, ne ricordiamo la successione, la forma, il boato.
«Mi ha preso qua, alle ovaie, ed è risalita per la pancia. Mi ha squassato». Francesca Due si tiene il ventre, esaltata. «Qua».
Ci mettiamo a correre, gli scarponi frenati morbidamente dal terreno farinoso. Balzi enormi, felici, esplosivi. Ma sto all’erta: pietre e spuntoni potrebbero fracassarci le caviglie o farci capitombolare verso un'altra pietra.
Il sentiero diventa più consistente, tende a sinistra, quasi in piano, e l’aurora ci regala un tripudio di nuvole rosa e celesti: dopo la più grande delle esplosioni, una grandiosa esplosione di colori pastello. Giù, oltre l’abitato si distinguono delle barche, anche Strombolicchio, ma il mare si confonde con le nuvole, non c’è orizzonte. E dopo la desolazione della lava arsa e tagliente ecco gli arbusti rari, il citiso eoliano (saranno trecento in tutte le isole, mi informa Roberto) e poi un paio di fichi bassi, stentati, a raggiera. Riusciamo a mangiare qualche frutto. Arriviamo ai canneti. Sembra di inoltrarsi in un qualsiasi sentiero di campagna ma non è così: forse siamo su una vecchia sciara, la polvere è finissima e si solleva oltre le nostre teste. Avanziamo un po’ distanziati per non moltiplicare la nuvola ma ne siamo completamente avvolti. La tedesca si lamenta, solleva la maglietta contro il volto per filtrare l’aria. Ma chi se ne frega, ormai. Poco ancora e siamo sul cemento, ci sediamo per toglierci scarponi e calze. Il Geco vuole che ci scaglioniamo. Se ne andrà a casa. Lo abbraccio, poi, impastato di fuliggine, polvere, sudore, scendo insieme alle tre ragazze verso la spiaggia, attraversando un paese addormentato. Una bici elettrica, uno spazzino. Il bianco, il celeste, le piante. È delizioso, ma come nella salita di ieri sera mi affretto, sopravanzo tutti: voglio l’acqua.
Sono sui sassi della spiaggia. Mi spoglio e metto i piedi in mare. È fermo, limpido, dopo pochi metri la sabbia nera lascia il posto a sassolini bianchi. Non ho sonno, non sono stanco. L’energia vulcanica continua a percorrermi e il massaggio idrosalino mi tempra. La mente è pulita, sento le membra accarezzate dall’acqua, non ho più un corpo, sono il mio corpo, null’altro che lente, consapevoli, carezzevoli bracciate, ma ne sono anche fuori, leggero, sono l'acqua che mi disegna. Le ragazze si sono immerse più avanti, anche loro senza costume. Francesca sta già uscendo. Torno alla mia roba, aspetto che la pelle si asciughi ma l’aria è umida, ferma, il sole anche se ben visibile è troppo basso. Aspetto parecchio, in piedi. Poi mi rivesto, richiudo in una busta pile e scarponi e mi dirigo verso le tre grazie supine rivolte a levante. Lascio a Francesca l’incarico di restituire la mia roba: se aspettassi l’apertura del negozio perderei l’aliscafo. Un quarto d’ora dopo, col biglietto Ustica Line in tasca, sono seduto davanti a una brioche del Canneto. ♦
© Copyright 2007 Elio Paoloni (originariamente pubblicato su "Fernandel" n. 59, gennaio-marzo 2007).