Francesca Bonafini, A tempo determinato




M
i dicono che dovrei sistemarmi.
Francesca Bonafini
«Spesso ci si affanna per raggiungere posizioni "istituzionalmente lecite" che illudano di avere certezze, punti fermi. Le convenzioni sociali sono fatte apposta per rassicurarci, rispondono al bisogno di appigli che nascondono l’indeterminatezza radicale con cui siamo impastati: c’è forse qualcosa che non sia precario e labile nelle nostre vite?».
Francesca Bonafini ha pubblicato racconti su riviste e quotidiani ed è presente nelle antologie Quote rosa. Donne, politica e società nei racconti delle ragazze italiane e Fiocco rosa. Gravidanza e maternità nei racconti delle donne italiane. Per Fernandel ha pubblicato il suo romanzo d'esordio, Mangiacuore.
Che vorrebbero vedermi sistemata.
Che ho trent’anni.
Lo so che ho trent’anni. Mi crescono nella carne da trent’anni. Me ne sono accorta. Lo so.
Mi dicono che vorrebbero vedermi sistemata e io non ho neanche capito cosa vuol dire, sistemarsi.
Se sistemarsi vuol dire un lavoro buono, forse non sono capace.
Se vuol dire un lavoro fisso, manco so cosa sia.
Se vuol dire un uomo da sposare, figuriamoci.
Gli amori sono tutti a tempo determinato. Anche quelli che fanno finta che no. Anche quelli che fanno finta che è sul serio.
Di serio, c’è solo la fregola che ti prende le budella, e quando è una fregola forte e vera, bisogna lasciarla che faccia il suo tramestio, godersela finché dura. Perché quella, è roba che capita poche volte nella vita.
Comunque, io mi innamoro sempre sbagliato. Sempre cado innamorata di uomini che non si può. Oppure che vivono lontano. Oppure che fanno male e basta. Oppure tutte queste cose messe insieme. Barbari che passano e saccheggiano. Io li lascio fare: mi arrendo al sacco. Non ho armi, non ho corazze, non ho scorza dura. Lascio che brucino i campi e violentino i pensieri.
In tutto ciò, sono molto selettiva. Mi innamoro solamente di loro: i predoni, i vandali, gli impossibili. Mai una volta di uno pacifico.
Ci sarà una spiegazione a tutto questo, oppure anche no.
Vado a lotta col mio psichiatra una volta a settimana. Dice che non voglio una relazione stabile. Io gli dico guarda che non è mica vero. Caro mio, guarda che non è mica vero. Lui s’impunta a dire che i maschi tormentati e manigoldi che piacciono a me sono di certo più affascinanti di un baciapile, ma devo mettermi nel cervello che esistono le vie di mezzo.
Allora ditemi voi dove sono le vie di mezzo. Lascio volentieri qui il mio numero di telefono. Che mi chiamino, queste benedette vie di mezzo, e poi vediamo.
Invece no. Mi chiamano i barbari. I distruttori passano e ripassano, per essere certi di non lasciare nulla di intatto. Telefonano a tutte le ore del giorno e della notte, e dicono vieni qua. Allora io prendo e parto: mi immolo sull’altare del dio barbaro, faccio di me agnello sacrificale, mi prostro ai suoi comandamenti (io sono il dio barbaro tuo, non avrai altro invasore all’infuori di me). Col cavolo che non voglio una relazione stabile: idolatro stabilmente un dio barbaro. Io sono il suo adorante popolo monoteista.
Perché lo so bene che a volte i barbari mandano manna dal cielo, e allora mangio finché posso, finché dura il banchetto d’amore.
Il mio psichiatra lo faccio sudare: sono un caso disperato. D’altra parte, è giusto che sgambetti con affanno e che traspiri abbondantemente: gli pago le ferie in barca, lo chalet a Cortina e il maggiordomo coi guanti. Se vado avanti di questo passo, probabilmente anche l’elicottero.
Io che non ho neanche un lavoro fisso, verso volentieri i miei pochi soldi per una giusta causa: un uomo che fa fatica davvero.
Una sera d’inizio luglio ho accompagnato un mio amico a una festa. Siamo andati con la mia macchina, perché a lui la patente l’hanno tolta. Questo mio amico scrive poesie, canta e suona la chitarra ed è come l’albatro di Baudelaire.
Lui, nella vita di tutti i giorni, fa malanni uno dietro l’altro. Incespica, perché le ali ce le ha troppo grandi e non ce la fa a camminare. Poi lo vedi salire su un palco e pensi: eccolo lì, l’albatro di Baudelaire. Adesso vola. Altroché patente di guida.
Insomma quest’albatro amico mio una sera lo accompagno a una festa privata nel giardino di una villa strepitosa: gli avevano chiesto di andare lì a suonare qualche pezzo. Dopo tanti anni sabbatici in cui si è rifiutato di calcare le scene, il principe dei nembi stavolta ha detto sì.
Quando arriviamo, sul palco c’è un trio di musicisti. Questo trio, bisogna dirlo, suonano alla grande.
L’albatro mi dice, vado in macchina a provare i pezzi. Ciao.
Allora rimango lì come un’allocca, in mezzo a duecento invitati che si conoscono tutti tra di loro. Per passare il tempo e tenermi occupata con eleganza e disinvoltura, vado al tavolo del rinfresco e comincio a tracannare cocktail e ingozzarmi di tartine e tramezzini.
L’albatro dopo un po’ rispunta fuori e mi trova in piedi, da sola, con la bocca imbottita e il bicchiere in mano, in mezzo a un mucchio di gente intenta alle chiacchiere più varie.
Ma non fai conoscenza? Mi dice.
Eh. Si conoscono tutti tra di loro. E poi sono timida.
Ma non ti piace nessuno? Fa lui, ammiccante.
Nessuno, rispondo io con tono categorico.
Anzi no, aspetta. Uno mica male c’è. Il chitarrista, quello là.
Ah, fa lui. Davide Falma. È un mascalzone!
Eh, certo. Ti pareva...
Lo ammetto: sono molto selettiva. I mascalzoni li capto anche nel raggio di dieci chilometri. Li fiuto con impeccabile maestria.
In una festa di duecento persone, chi è che caso mai potrebbe destare la mia attenzione?
Un filibustiere, ovvio.
E chi sennò. Ci mancherebbe altro.
Mentre il mascalzone Davide Falma e la sua band suonano alla grande, io e l’albatro ci sediamo a un tavolino e restiamo in silenzio.
A un certo punto l’albatro annuncia: stasera faccio i miei pezzi, e poi mai più. Ho chiuso.
Ma perché dici così? Chiedo io.
Perché sentili questi qua. Sentili come suonano.
Eh, è vero. Son bravi, faccio io. Ma sei bravo anche tu. E poi loro sono in tre, loro fanno volume...
A un certo punto, il lestofante Falma e i suoi musicisti si mettono in pausa.
Allora quel ruffiano dell’albatro chiama al nostro tavolo il Davide Falma e me lo presenta.
(Non so come gli sia venuto in mente, presentarmelo. Cosa cazzo gli dico io, a Davide Falma? Sono timida.)
Succede che il Falma si ferma lì con noi a fare due chiacchiere. Poi dice, scusate, vado a prendere da bere.
Lo guardiamo allontanarsi sinuoso verso il tavolo dei cocktail e l’albatro mi dice: ecco, tu adesso dovresti andar là al bancone delle bibite e attaccare discorso.
Ma va’, faccio io. Non sono mica capace.
È così che bisogna fare! suggerisce l’albatro, decisamente in vena di adoperarsi da ruffiano.
Ma io non sono così, gli dico. Le cose succedono se devono succedere. Perché quando devono succedere non c’è mica da far niente. Anzi, certe volte bisogna puntare i piedi per trattenere la fregola reciproca, certe volte c’è una forza che fa calamita e ci si cade addosso l’uno sull’altro come la cosa più naturale del mondo. Gli occhi si incrociano per un istante solamente, e tutti e due si sa che non c’è scampo, bisogna lasciarlo succedere, l’amore. Ma sono cose rare, queste qui.
Dopo un po’, il furfante Falma e i suoi compari riprendono a suonare.
Io e l’albatro restiamo seduti al nostro tavolo, in silenzio.
La maldestra creatura alata in cattività sulla terra spegne l’ennesima sigaretta e io cincischio col mio bicchiere vuoto.
Non puoi essere così fragile, mi dice lui. Non devi.
Neanche tu, gli rispondo io.
Quando viene il turno musicale dell’albatro, arrivano i camerieri e apparecchiano un buffet che non finisce più.
L’albatro si lamenta. Ecco, adesso devo suonare io e la gente è là che si riempie il piatto.
Poi però la gente col piatto pieno si siede ai tavoli.
L’albatro apre bocca, fa un pezzo, legge una sua poesia.
Tempo due canzoni, e gli invitati stanno zitti: ascoltano l’albatro, lo guardano in volo, lui e le sue ali troppo grandi per le patenti di guida e il cartellino da timbrare.
Mi cade l’occhio su una squinzia bionda. Punta l’albatro dall’inizio alla fine dell’esibizione, quella vacca.
(Cosa ne sa lei, adesso, dei suoi passi malfermi? È accecante la bellezza dell’alato viaggiatore, adesso. È facile, lasciarsi rapire, non sapendo. È facile. Io lo so, invece. Io lo so, e non m’importa.)
Dopo una mezza dozzina di pezzi e una manciata di poesie, l’albatro avverte: a questo punto del concerto, ci tengo a far sapere al pubblico femminile che sono scapolo.
Io penso che a me, di Davide Falma non me ne frega proprio niente.
Finito il concerto, l’albatro passa a raccogliere le messi biondeggianti. Ben due numeri di telefono di squinzie, tira su, accompagnato dal sottofondo musicale dell’impostore Falma e la sua band, di nuovo sul palco. Io resto seduta al tavolo, aspetto, soffro.
Quando l’albatro decide che ha finito di tacchinare, finalmente ci mettiamo sulla strada di casa.
Mi racconta che la bionda scrive poesie, e lui le ha detto che sta cercando l’anima gemella e chissà che forse non possa essere lei.
Un approccio di bassa lega, commento io con nonchalance.
Ma è vero che sto cercando l’anima gemella! Protesta lui.
Tanto lo sai che te le porti a letto e poi dopo una settimana sei già stufo.
L’albatro ci rimane male, ma sa bene che ho ragione.
L’amore è sempre a tempo determinato.
Però lo senti nello stomaco quand’è che vale la pena lasciarti rapire per una manciata di giorni, o mesi, o forse anche anni, ad essere fortunati.
Tanto non c’è nulla, che non sia a tempo determinato. Nemmeno la vita.
Però certe volte uno lo capisce, che vale lo stesso la pena.
Un giorno che sono tornata da un viaggio, l’albatro mi ha detto: finché eri via ho pensato che al tuo ritorno ti avrei chiesto di sposarmi, ma il mio psicologo mi ha detto di non farlo.
Ecco, bravo. Non pensarle neanche queste cose.
Che sennò dopo io ci credo.
E poi magari sarei anche così insana da dirti di sì. ♦

© 2007 Francesca Bonafini.