Francesca Bonafini, Mangiacuore
Radio e Tv
Isbn: 9788887433937
Collana: Fernandel
Data di pubblicazione: febbraio 2008
Leggi come inizia
Alfredo vuole piantarla con l'eroina. In una comunità milanese incontra una volontaria, che lui, romano, chiama «la ragazza del nord». Terminata l'esperienza di volontariato lei riparte per Bologna, lui scappa dalla comunità e torna a Roma. Ma non riusciranno a stare lontani...
Che cosa attrae e accomuna due persone all'apparenza tanto diverse? Quale inquietudine le unisce? Una storia raccontata a due voci, un dialogo serrato che passa attraverso l'amore, la droga, la difficoltà di reinventarsi una vita e il bisogno di un'autenticità lontana dalle maschere che ci si mette addosso per sgomitare nel mondo.
Un percorso accidentato fra costruzione e distruzione, fra speranza e disincanto. Una storia mangiacuore.
Come inizia
Ad averlo saputo per tempo, ad aver intuito precocemente l’alta e perigliosissima densità tossica insita nell’indicibile profumo divino di Alfredo (e infatti non mi ci provo a dirlo, io, l’ineffabile), col cavolo che mi ci sarei parata davanti senza la minima precauzione (bombole di ossigeno, maschera antigas, camera iperbarica mobile).
Essendo l’aroma emanato dalla sua pelle una sostanza psicoattiva atta a stimolare il sistema nervoso centrale, sarebbe stato auspicabile, da parte delle autorità preposte all’ordine pubblico, allegare alla sua persona un foglietto illustrativo al fine di chiarire minuziosamente almeno le controindicazioni connesse all’uso, oppure un semplice e da chiunque facilmente comprensibile avvertimento (del tipo attenzione attenzione sostanza pericolosa che, sniffa oggi sniffa domani, va a finire con la dipendenza che cattura le budella e non le vuole mollare più).
A saperlo, ci si può anche regolare. Almeno limitare l’esposizione, se non è proprio possibile evitarla del tutto.
E invece no. Alfredo circola impunito a far danni irreparabili, con l’aggravante di portarsi addosso una bocca che non si sa mica chi possa averla inventata così bella e piena di carne che viene smania di assaggiarla e una fame di carne che non te la togli e ti si presenta durante il sonno notturno sotto forma di lonza leggera e presta molto, e alla mattina tocca anche mettersi a fare l’ermeneuta dei sogni. Ma come se non bastasse, il farabutto ha perfino l’arditezza di guardare con uno sguardo grigioverde che esorta inequivocabilmente al banchetto carnale, nonché la sfrontatezza di attivare gli organi della fonazione emettendo suoni splendidamente baritonali e ipnotici al fine di alterare la funzione percettiva degli astanti. [...]
Rassegna stampa
Un masochismo pervicace per un ottimo esordio (Alberto Sebastiani, «La Gazzetta di Parma», 12 febbraio 2008)
Due voci parallele che nel corso della storia si contaminano l'un l'altra (Jacopo Nacci, «L'Indice», aprile 2008)
Il primo romanzo di Francesca Bonafini. Una storia d'amore «mangiacuore» («L'Arena», 28 aprile 2008)
Amore disperato (Segnalazione su «Cosmopolitan», aprile 2008)
La ravennate Fernandel continua con la sua (encomiabile) politica editoriale di promozione di scritture al femminile. Proprio dalIa fortunata antologia Quote rosa (uscita lo scorso anno), viene anche l'esordiente (con il primo romanzo in proprio) Francesca Bonafini, classe 1974. In Mangiacuore (pp. 128, euro 12), ambientato tra Milano, Bologna (città adottiva della giovane scrittrice) e Roma, l'autrice racconta una storia di«amore (ex) tossico» tra Alfredo, che ha deciso di farla finita con l'eroina, e la «ragazza del nord», la volontaria che ha incontrato nella comunità di recupero in cui è stato ospitato. Una storia complicata, fatta di durezza e di dolcezza, attraverso la quale vengono raccontale anche le esistenze inautentiche cui sempre più spesso sono costretti gli esseri umani.
A leggere gli esordi narrativi di molti autori, resta solo la tristezza per quello che poteva essere e non è stato. Accade spesso, ma grazie al cielo non sempre. Qualcosa si salva, perché probabilmente l'autore sapeva già in partenza cosa voleva raccontare e come raccontarlo. Una sensazione bellissima, quando la si incontra. Perché ci fa capire quanto poco di improvvisato ci sia nel lavoro di quello scrittore e quanta intenzionalità, quanta forza abbia messo nello scrivere il suo esordio. In Mangiacuore, esordio sulla lunga distanza della trentatreenne Francesca Bonafini, ci sembra accada proprio questo. La storia è infatti costruita con attenzione e senza sbavature, lavorando con attenzione sui personaggi senza però dimenticare uno sviluppo credibile della storia. Ma dentro le pagine del romanzo colpisce anche la capacità da parte della Bonafini di far scattare un meccanismo assai raro, cioè la voglia di rileggerlo così da sentire ancora una volta le voci che si alzano dai due personaggi principali, da Alfredo e dalla non meglio identificata "ragazza del Nord". Due voci, intrise dell'eco tondelliano di Altri libertini, che riescono a riempire con il loro alternarsi e mutare l'intero arco della storia proposta da questa autrice. Voci che si offrono come una via alternativa al classico universo giovanilista, dipinto oramai costantemente come preda di un narcisistico solipsismo depressivo o modellato attorno a una filosofia e una antropologia che diventa vera solo grazie alla quantità targhettizzata di oggetti citati. In Mangiacuore questa ragazza e questo ragazzo descrivono una realtà concreta, che scommette tutto sulla credibilità della situazione. Per essere più precisi, i due personaggi sono completamente immersi dentro questa realtà che si muove di pari passo con le azioni che compiono, con le decisioni che prendono, reagendo a e ragionando sopra quanto accade sia dentro sia fuori di loro. La "ragazza del Nord" (un Nord vago, riconducibile a Bologna: città mai agita, solo nominata) e Alfredo - tossico romano in cerca di cure e di un luogo in cui trasformare il suo ribellismo negativista adolescenziale in una possibile adultità - non fanno altro nei cinque capitoli di questo purtroppo breve romanzo. E per comunicare il loro essere dentro il movimento della realtà, il loro essere la realtà stessa, era importante dotarli di voci che, come ha intelligentemente fatto Bonafini, si opponessero e si intersecassero vicendevolmente, travasando dall'una all'altra quella sorta di moderno male di vivere che ci possiede tutti. Una realtà quindi dove il percorso che dal dolore porta alla felicità non è mai univoco, dove quella specie di ottimismo della ragione tramutato in ostinazione dietro cui si cela la protagonista non è altro che lo specchio di quanto va facendo Alfredo: il fuggire dalle comunità per poi volerci ritornare, l'ubriacarsi, il diventare violento a parole più che nei fatti, blaterando a vuoto, proprio come un tardivo adolescente contro il mondo bestia. Che poi è il mondo degli affetti, la sua famiglia e questa ragazza settentrionale. La famiglia e la casa sono un crocevia fondamentale in Mangiacuore, perché è in queste due situazioni che va poi a ispessirsi il rapporto con la realtà dei due personaggi principali ed è in esse che si innesca per loro lo scontro e il rispecchiamento. La casa e la famiglia di Lorenzo diventano perciò il luogo catartico della vicenda, diventano il luogo di una presa di coscienza che si andrà a sviluppare in seguito e porterà a sviluppi inattesi. In qualche modo, fra quegli affetti e fra quelle mura più che altrove, si compie quanto avveniva nella Zona descritta anni addietro da Tarkovskij nel suo Stalker. Lì si avveravano i desideri più intimi di chi riusciva a raggiungerla, qui si arriva a strappare il velo di Maya dai propri occhi, si impara a conoscersi per quello che realmente si è.
Esistono degli incroci di esistenze che, sanguisughe, succhiano la vita dalle altre? Esistono degli scambi non visti di energia, di fluidi che una goccia alla volta, ripresa per uno, stillicidio per l'altro, passano come vasi comunicanti da un cuore all'altro? Ti insegno a pulsare, giacché ti sei scordato come si fa. In cambio il mio battere, a forza di mostrarti il modo, si scorda il movimento. Paradossale, no? Tu cresci, io decresco. Tu torni, io me ne vado.
Francesca Bonafini ce ne racconta due, spiegate in una storia a due voci, che su di un'immaginaria altalena vanno e vengono, salgono e scendono la cresta in un modo più avanti infinito. Lei ama la carne di Alfredo, ne ama i lineamenti, il modello matematico che la natura ha usato per crearlo. Non c'è niente nel suo corpo che non sia, per lei, bello, attraente. Una pianta carnivora che l'attrae anche se senza volerlo. E Alfredo accetta, l'ama per un qualche cosa che non sa dire. L'ama da subito, non sapendo il significato della parola amore. E' piuttosto l'ingrediente e la medicina che lo fanno vivere. Se non ci fosse lei, morirebbe. Sarebbe morto da un pezzo. E lei non può non cercarlo, non può non andare da lui, scovarlo e trattenerlo su questa terra, meravigliandosi lei stessa di quello che la sua testa le chiede di fare. Ma non c'è conflitto interiore, non è una costrizione o una gabbia. Anzi, quando Alfredo non è ubriaco o non è fatto è la sua pace. E' quello che vuole. Ma che non può quasi mai avere. Che lui prende e scappa, morde e fugge insomma. Non sa essere diverso da quello che è sempre stato, vorace di queste "maschere" dentro le quali si rifugia.
Una storia dolce, acida, di sentimento. Si sente la femminilità, la passione unica della femminilità, nei dialoghi di Lei. Un po' meno presente nei racconti di Alfredo, dove se si fruga bene si scopre la mano di donna che regge il filo. Ma va bene, va molto bene.
Ho letto il libro in un pomeriggio solo, evitando altri impegni, portandolo con me dove dovevo andare. L'ho letto in un pomeriggio solo perché sentivo di farlo. E se un libro ti chiama così prepotentemente, non si può non rispondere.
Mangiacuore, romanzo d’esordio di Francesca Bonafini dall’inizio intrattiene come un’intricata, insolita storia d’amore di cui però presenta tutti i connotati per essere riconducibile alla realtà. È una narrazione a due voci che nel dipanarsi presenta l’intera sua evoluzione con uno stile a tratti accostabile alla dimensione diarista.
Da una parte le pagine narrate dalla voce femminile seguono il punto di vista e la posizione di una ragazza, volontaria in una comunità, che si innamora di un tossicomane. Ma sono anche le parole e il fare di una donna che sceglie di inseguire questo amore lo stesso, nonostante tutto. E a cominciare le riesce anche bene.
In una variazione e altalenarsi di umori e comportamenti la donna-volontaria prende treni con l’entusiasmo proprio di un amore adolescenziale, alimentato da abbracci veri e baci appassionati, ma non sa risparmiarci nemmeno un’energia cupa più determinante. Allora sono domande, ombre, inquietudini, riflessioni che non invadono mai il lettore duramente ma si presentano e si affacciano piuttosto con uno sguardo razionale, consapevole e con il dovuto distacco.
In parallelo c’è sempre la voce maschile, quella di Alfredo, il tossicomane romano che tenta di disintossicarsi, ignorando dal primo incontro il nome della protagonista e memorizzandola da subito come ‘la ragazza del nord’. E di Alfredo emerge un ritratto più tormentato, spesso in bilico e fuggitivo, col fare di una persona che sopravvive nelle sue condizioni come conseguenza di un stato fisico e mentale alterati. La Bonafini lo presenta anche piuttosto impavido perché Alfredo ha mescolato la morte troppe volte per aver paura.
Una narrazione che nell’essere a due voci lascia riconoscibilità assoluta ai due protagonisti sebbene le vicende siano altrettanto capaci di fondersi in un’unica dimensione a poter così costituire un unico tessuto narrativo. Una storia d’amore inquieta e di viaggi per incontrarsi, una storia che a tratti sembra sfiorare le questioni, a tratti pare volerle sviscerare ma senza mai appesantire troppo una narrazione dai contenuti di per sé già lontani dalla leggerezza. E sopratutto una romanzo in cui i protagonisti molto diversi tra loro tentano di condividere un percorso di vita insieme a far emergere così ciascuno i propri limiti, le proprie debolezze e il desiderio di trovare un posto nel mondo.
E chissà che non sarebbe proprio quel posto a permettere di abbandonare quelle maschere che generalmente gli uomini fanno proprie come fossero uno scudo per vivere tra la gente.
Un'autrice giovane, di origine veronese, ma da tempo residente a Bologna - città dove ci sono più scrittori emergenti che portici - e una copertina rossa con un cuore di metallo circondato da filo spinato: i motivi per partire prevenuti ci sono tutti.
Francesca Bonafini sembra saperlo perché apre il suo primo romanzo con un incipit da antologia e fa drizzare il lettore sulla poltrona, conquistandone attenzione e rispetto con le prime sedici righe. In questo lasso di carta racconta l'innamoramento. “Sai che novità” - diranno subito i miei piccoli lettori. Appunto: la Bonafini sfida e vince - con irritante facilità - il topos letterario per antonomasia, lo spiega con approccio scientifico e ragionato, ne dà “la” descrizione infallibile e definitiva, riuscendo a essere innovativa nel più scontato degli argomenti, ripercorrendo il sentiero più trafficato del mondo della letteratura e scovandone – lei sì, lei sola – gli unici, beffardi, aspetti reali. È un piccolo regalo, questa introduzione ironica, una sorta di benevola concessione al lettore, pari all'ultima ditata di Nutella prima della dieta. Poi il romanzo si palesa per quello che è: la storia di un tossicodipendente incapace, per quanto desideroso, di riappropriarsi della propria vita, deluso da se stesso e disilluso della possibilità di riguadagnare un ruolo dignitoso nella società.
Il suo passato viene ricostruito attraverso il racconto del suo presente, del rapporto con la ragazza del nord. I due si sono incontrati in una comunità di recupero milanese: lei volontaria, lui tossicodipendente. Terminata questa esperienza, ognuno fa ritorno alla propria città e tra i due inizia una sbilanciata relazione a distanza. È sempre lei a raggiungere Alfredo a Roma, dove lui vive con genitori, nonna e cani. È un sacco da pugile la ragazza del nord.
Incassa impassibile gli scatti di ira di questo Alfredo, i suoi momenti di violenza e rancore verso i familiari, le sue debolezze e le sue incoerenze.
Per quanto lui la prenda a botte nell'anima, con il proprio comportamento, lei resta in piedi, magari vacilla, ma gli torna davanti di nuovo, pronta a prenderne ancora. Alfredo, però, non è “il cattivo”. Non si approfitta di lei, né la prende in giro. A modo suo, la ama perfino; semplicemente, non è la cosa che più ama al mondo. In verità, qualcosa che lui ami davvero non sembra esserci; ci sono, piuttosto, cose sempre più urgenti, come la birra.
Perché Alfredo, va riconosciuto, ha deciso di smetterla con l'eroina e lo sta facendo. Ha scelto di andare in comunità. Non ha resistito, se n'è andato, ma ha fatto domanda per entrare in un'altra; ce la sta mettendo tutta: è deciso. Ha qualche debolezza, ma è deciso. Non si può nemmeno pretendere che smetta da un momento all'altro – lo giustifica chi gli sta intorno - se fosse così semplice ce la farebbero tutti.
Alfredo ogni tanto va in crisi, esistenziale, più che d'astinenza (avendo le giornate scandite dalla distribuzione del metadone al Ser.T, fisiologicamente parlando dovrebbe essere relativamente in forma). Si ricorda di come, ragazzo, avesse smesso di sentirsi una nullità grazie alla droga, vendendola e usandola, di come fosse diventato di colpo rispettato, “all'altezza de tutto e de tutti”. E ha un bel dire la ragazza del nord, che volersi sentire “potenti” è da cretini, che non c'è nessun bisogno di indossare maschere per ritagliarsi un posto nel mondo, che ciascuno – e Alfredo in particolare – è importante e dignitoso per quello che è, senza doversi fingere più forte o potente. Per lei è tutto semplice, è tutto chiaro, lei non si sente mangiare dentro da questa inadeguatezza alla vita, non si sente l'etichetta del drogato addosso, lei guarda avanti e un futuro lo vede. Alfredo no.
In questi momenti Alfredo ha bisogno di un aiuto, di qualcosa che lo tiri su, che non lo faccia pensare troppo alla sua condizione. È passato, così, dalla dipendenza dall'eroina alla dipendenza dall'alcol. In maniera subdola, discreta, senza che gli altri abbiano potuto fermarlo, fino ad essere ancora schiavo di comportamenti paradossali, come il piantare in asso in mezzo alla strada la fidanzata per infilarsi nel bar sul marciapiede opposto e uscirne candido come un bambino.
Perfino l'abnegazione della ragazza del nord ha un limite e quando sente a letto la stessa distanza che sente per strada sa che il saluto dell'indomani è l'ultimo.
Alfredo va a guardare il suo schifo in una nuova comunità, per provare a misurarlo e portarlo via; la ragazza del nord va a guardare la sua ansiosa insicurezza da Buenos Aires, perché spera che da lontano sembri più piccola. Vede, invece, lo schifo dell'esistenza. Vede come tutto vada sempre a rotoli, anche quando non sembra, come sotto la superficie ci sia sempre il marcio; del dono di rendersene conto non sa che farsene e vorrebbe, ora, avere il dono di prendere le distanze e lasciare che le cose vadano per gli affari loro.
Non è una storia d'amore, non è un'operetta morale sulla droga. Il primo romanzo di Francesca Bonafini è sulla dipendenza e la devastazione.
Non importa se per una sostanza o una persona: l'incapacità di pensare noi stessi senza l'oggetto della nostra passione non può che condurci alla perdizione.
Le ultime righe stupiscono e, per questo verso, costituiscono un esempio classico di quello che ci si aspetta da un romanzo, eppure, un attimo dopo, non sembrano poi così imprevedibili, perché la storia letteraria finisce nel più logico dei modi in cui finirebbe la stessa storia nella realtà.
Una delle ragioni che hanno portato alla repentina affermazione del romanzo moderno è stata il saper raccontare storie di individui normali, storicamente collocati: non più eroi, dei o “tipi” della commedia, ma nomi e cognomi nel tal posto e nel tal tempo. Se blandire il lettore con un finale soddisfacente, perché lieto o sbalorditivo, quando non entrambe le cose, è il limite di molti romanzi, Francesca Bonafini “sfida il sistema” e termina la sua prima opera con una conclusione non imprevedibile e, proprio per questo, sconcertante.
Vi si arriva attraverso le voci dei protagonisti, alternate nei capitoli a raccontare l'azione dal rispettivo punto di vista, ora con il lessico di una studentessa bolognese colta e socialmente impegnata, ora con quello del balordo di un quartiere popolare di Roma, capace di manifestare la sua frustrazione solo attraverso bestemmie, che altro non sono se non intercalari, come i “cioè” degli adolescenti incapaci di organizzare meglio il loro pensiero. Man mano che la vita accanto ad Alfredo destabilizza la ragazza del nord, le parole di questa si fanno simili a quelle di lui, la prosa diventa ansiosa e frammentata, sintomo della confusione interiore che la travolge. Non il solito imbarazzante escamotage dello stile giovanilistico per mascherare una prosa inadeguata, ma centoventi pagine di esercizio di stile che sbattono in faccia al lettore la solida padronanza dei meccanismi della narrazione e l' isomorfia pressoché perfetta tra forma e contenuto.
Francesca Bonafini è innamorata delle parole e lo dichiara con ogni frase.
Ne ho la conferma durante la presentazione di “Mangiacuore” [Fernandel, Ravenna, 2008], alla libreria triestina In der Tat. Questa giovane sa scrivere, ma sa anche parlare. Gusta – come diceva di fare Fosco Maraini – il suono delle parole, ci giocherella in bocca come fossero caramelle. Poi “sputa” la più adatta, sceglie la più pregnante con invidiabile facilità, perché per lei, che tanto a fondo le conosce, non c'è possibilità di confusione: una sola denotazione attraverso un solo segno – per usare i termini di Frege, che pur rifiutava questa corrispondenza biunivoca – per suscitare rappresentazioni quanto più possibile simili al referente.
All'inizio della presentazione, Chiara Casarella, che introduce la scrittrice, spiega l'amicizia che le accomuna parlando della “settimana metafisica”, come Francesca la chiamerà anni dopo in un racconto, l'esperienza in bilico tra la vacanza in libertà e una sorta di ritiro spirituale pagano nella letteratura che hanno condiviso nell'adolescenza. Curioso modo di passare le vacanze, per due sedicenni.
Lorenza Pravato (LP): Quando hai cominciato a scrivere? Se già al liceo hai fatto la settimana metafisica vuol dire che “la covavi da un po'”...
Francesca Bonafini (FB): Sì, la covavo da un po', anche se ho soprattutto letto, per buona parte della mia vita. Ho sempre amato scrivere, ma ho iniziato tardi a comporre racconti, intorno ai ventitré, ventiquattro anni; prima erano cose ancora non ben definite: non c'era una storia. E poi avevo un gruppo, suonavo e scrivevo soprattutto canzoni. A un certo punto ho iniziato a pensare di creare una struttura, di scrivere delle storie, raccontare delle storie. Ma i racconti veri e propri sono arrivati relativamente tardi.
LP: ...perché tu da piccola volevi fare la...?
FB: (indugia, nda) Non lo so. Proprio non lo so. Forse volevo fare questo perché di fatto ho sempre scritto storie, sebbene fossero cose anche molto acerbe e immature. A scrivere storie pensandole come racconti ho iniziato tardi, è vero, ma in senso lato l'ho sempre fatto, perciò non saprei dirti cosa volessi fare da piccola. Forse era questo perché non so fare altro!
LP: E come scrivi? Hai un metodo preciso, sapresti indicare un percorso?
FB: Per me è molto importante l'aspetto fonico della scrittura: si scrive con l'orecchio. Allora il mio diventa quasi un “ruminare” fonico, è una scrittura che deve avere un ritmo, che deve avere un suono, prima di tutto. Come si dice questo della poesia, cioè che è suono prima di essere altro, perché la parola è suono prima di essere significato, così per me vale anche per la narrativa. Poi c'è la voglia di guardare il mondo senza lasciarlo passare come fosse acqua che scorre addosso. Secondo me, la scrittura, come la parola, possiede questa forza, questa capacità di penetrazione e di riflessione rispetto alle cose del mondo, che ci circondano. Diventa quindi un modo per guardare le cose.
LP: Oltre alla letteratura, scritta e fruita, cosa è importante per te? La musica? E qualche altra passione?
FB: La musica sicuramente è una mia passione, lo è sempre stata, come accennavo ho un passato musicale – e per fortuna è passato perché non era poi questo gran che! -, ma la lettura penso che sia la cosa che mi assorbe di più. Io sono soprattutto una lettrice, leggo molto più di quanto scrivo, non sono un'autrice prolifica. Non sono come Morozzi (ride, nda)! Beato lui: scrive, legge moltissimo, fa un sacco di cose... io soprattutto leggo e poi, ogni tanto, scrivo.
LP: E che cosa leggi? Hai degli autori preferiti, degli scrittori di riferimento? Sicuramente li avrai...
FB: Eccome, ce ne sono tantissimi. (È titubante, nda) Di italiani ti posso dire Tondelli, Gianni Celati; poi ho dei libri che amo molto, sono anche questi tanti: ti direi La morte di Ivan Il'ič di Tolstoj, Casa di bambola di Ibsen, Dostojevskij - i Russi fondamentalmente - Oblomov di Gončarov... ce ne sono veramente moltissimi.Ti elenco i libri piuttosto che gli autori (e quasi si contraddice subito, presa dall'argomento com'è, nda): Primo Levi è, ad esempio, un autore che amo molto; I sommersi e i salvati è un altro dei miei libri culto.
LP: Ora la domanda di rito: progetti per il futuro?
FB: Continuo a scrivere racconti che escono in varie antologie e c'è un romanzo in lavorazione. In verità sarebbero due, ma è bene portare avanti prima l'uno e poi l'altro, se no faccio confusione. (Non come Morozzi - nda) Quindi ora il progetto è portare a termine questo romanzo.
LP: Qual è il libro che avresti voluto scrivere? O qual è il tuo libro preferito se ce n'è uno che emerge sugli altri.
FB: La morte di Ivan Il'ič.
LP: E qual è la tua parola preferita? Guarda che è una domanda-trabocchetto.
FB: (si illumina, nda) Ebbene, è difficile scegliere “la mia parola preferita”: ce ne sono tante. Però io sono presente nel Dizionario affettivo della lingua italiana (uscito per Fandango, a cura di Matteo B. Bianchi) con la parola che, appunto, ho scelto, ed è Zaino.
Mi sono detta: “Quante parole ci sono che mi piacciono? Tutte!”. Poi ho pensato che c'è una cosa che amo molto fare, ed è viaggiare. Sono sempre in giro con uno zaino in spalla, che pesa un casino a causa di tutti i libri che ci infilo. Ho pensato quindi che potesse essere la mia scelta, perché dentro a zaino riuscivo a mettere tutte le parole possibili e immaginabili, quelle dei libri che mi porto dietro.
Nella tradizione romantica l’amore viene considerato come una malattia. Nel libro “Eros e Pathos”, con l’attinente sottotitolo “margini dell’amore e della sofferenza”, Aldo Carotenuto, così scrive: “Quanti più destini di normalità ho potuto indagare tanto più odio e modelli di rapporto sadomasochistico ho potuto riscontare: per cui sono giunto alla seguente regola generale:un rapporto amoroso si regge su una necessità patologica di ciascuno dei partner, e ogni amante rappresenta la malattia dell’altro.”
«A saperlo, ci si può anche regolare!» Risponde Francesca Bonafini all’inizio del suo libro. «E invece no. Eros stabilisce nuove connessioni tanto che Alfredo circola impunito a far danni irreparabili, con l’aggravante di portarsi addosso una bocca che non si sa mica chi possa averla inventata così bella e piena di carne che non te la togli e ti si presenta durante il sonno notturno […]. Ma come se non bastasse, il farabutto ha perfino l’arditezza di guardare con uno sguardo grigioverde che esorta inequivocabilmente al banchetto carnale, nonché la sfrontatezza di attivare gli organi della fonazione emettendo suoni splendidamente baritonali e ipnotici al fine di alterare la funzione percettiva degli astanti. Inoltre, egli non si cura affatto di celare pudicamente l’angelica capigliatura nera e maledetta come l’inferno. […] Ecco dunque scientificamente spiegato il motivo per cui, mi ritrovo, mio malgrado, a salire su un treno in preda alla più tremenda delle astinenze (vampate di caldo alternate e brividi di freddo, lacrimazioni, crampi) con il solo scopo di raggiungere Alfredo nella sua città».
Siamo dentro le pagine di Mangiacuore il primo libro di Francesca Bonafini che ripercorre in letteratura gli aspetti beffardi del colpo di fulmine con un’intensità nuda che denuda e con gli occhi fissi sul dettaglio; ossessione della fantasia concentrata su una sola immagine. Dentro il libro Alfredo, tossico romano e una studentessa di Bologna. Alfredo vive tra comunità e fughe, lei “la ragazza del nord”, di idealismo. L’incontro tra i due ragazzi avviene a Milano in una comunità di recupero, lei volontaria, lui ricoverato. S’intrecciano due solitudini, due monologhi, due vite. “La ragazza del nord” termina il volontariato, Alfredo ritorna nella sua città. Iniziano una relazione a distanza. Le fasi della storia si alternano nei capitoli quanto i protagonisti si appoggiano l’uno all’altro, immersi nel caos tra insicurezze e paure per esorcizzare la resa dei conti e la sostanza con la quale annullarsi. Iniziano i viaggi di lei e il vortice dell’autodistruzione che dilatandosi a dismisura li inghiottirà fino ad edificare l’inferno interiore in nome del libero arbitrio. Dagli atti dei deviati nascono identità minori che come forme pensiero perverse infestano l’armonia. “La ragazza del nord” si chiede quale sia il senso della vita nel durante e troppo tardi comprende di essere stata sedotta dall’immagine stessa di cui è portatrice, alla quale ha dato inconsciamente vita.
Come in un miraggio, l’autrice diventa consapevole di essere l’artefice principale della sua esperienza. La fascinazione subita, in realtà, non è stata opera dell’altro ma un’illusione costruita dalla sua fantasia. Fatale per lei perdersi nella personale proiezione psichica che nonostante le illusioni e le delusioni, ha continuato ad attivarsi rimandando significati nascosti impazienti di svelarsi. Alfredo non esiste, ma possiede una parte di sé e Francesca nell’epilogo conclude: «Oggi che non credo più alle parole, mi ricordo di quelle di Alfredo. E mi sembrano le più vere, le uniche parole a cui credere. Mi rigiro nel letto e mi riconosco lì. Alfredo sono io».