La parola è una chiave,
ma il silenzio è un grimaldello (Gesualdo Bufalino)
Pensava al futuro come ad un luogo dove andare in vacanza. Un posto meraviglioso e lontanissimo in cui ritrovare la serenità, a dispetto della dolorosa sensazione d’essere prossima alla fine. Negli ultimi anni aveva sempre camminato accanto all'ombra della morte, ma da alcuni giorni le sembrava che questa le avesse poggiato un braccio sulle spalle, con un gesto falsamente amichevole.
Daniele Borghi
Daniele Borghi è nato a Roma, dove vive. Ha esordito con la raccolta di racconti Day & Night (Fazi-Libuk, 2001), a cui sono seguiti Il nome di una privazione (Fara Editore, 2003), che ha ricevuto riconoscimenti in diversi premi letterari, Pinocchio non abita più qui (Fara Editore, 2005), Fuori è un brutto mondo (Il Molo, 2007), L’altra vita di Emma, che per stile e atmosfere ricorda il racconto che pubblichiamo, Casa di riposo Michail Bakunin (Perrone, 2014).
A farla sentire in quel modo erano gli sguardi di suo marito. Da quando erano arrivati nella casa di montagna, lui la osservava come uno strano insetto o come un testo scientifico di cui si riescono a capire le singole parole ma non il significato complessivo. Due settimane prima di partire per quell'insolito soggiorno montano, si era sottoposta al consueto controllo semestrale ed era certa che suo marito ne avesse ritirato i risultati il giorno che aveva preceduto la partenza. Da quando cinque anni prima era stata operata al seno, quella dei controlli era diventata una routine a cui non riusciva ad abituarsi. Ogni volta l'attesa degli esiti era una tortura insopportabile che le ricordava quel film di Bergman in cui il protagonista gioca a scacchi con la morte. Anche se ci pensava da molto tempo non era ancora riuscita a ricordare il titolo di quel film, e il non saperlo si era trasformato in un rito scaramantico. Si era convinta che venire a conoscenza di quel titolo sarebbe stata la sua fine, come se le cellule tumorali potessero avere qualche oscura relazione con la filmografia del regista svedese.Prima di sapere del suo cancro aveva riso delle stranezze delle persone che avevano dovuto subire interventi chirurgici per lo stesso motivo. La cognata, la moglie del fratello, era stata il bersaglio preferito dei suoi lazzi impietosi. Con suo marito, senza una briciola di compassione, si era divertita nel ridere degli strani rituali che quella donna metteva in atto nei giorni precedenti le analisi di controllo. Una sera in cui l'alcool era riuscito ad allentarle i freni inibitori più del solito, aveva addirittura pensato di giocarle uno scherzo orrendo alterando i risultati clinici. Ora si sentiva svenire dalla vergogna alla sola idea di aver immaginato una simile crudeltà. Avrebbe voluto rivederla, parlarle, chiederle perdono per quel gesto mai compiuto. Ma tutto questo, ormai, era impossibile: sua cognata era stata sepolta otto anni prima, al termine di un’agonia che aveva portato allo sfinimento l'intera famiglia.
Era stato il suo innato sentirsi migliore degli altri a farle pensare d’essere inattaccabile da quella malattia così volgare e ottusa. Il suo atteggiamento verso i malati di tumore era sempre stato quello accondiscendente del ricco verso il povero. Una miscela perversa di pietà e laido piacere di trovarsi in una situazione privilegiata. Ora, oltre che con la malattia, doveva fare i conti anche con la sua cattiva coscienza. Vivere con questi sensi di colpa e con l'angoscia di una recidiva era stato molto difficile ma ora, al confuso intrecciarsi di sentimenti e sensazioni, si era aggiunta la stranezza del silenzio di suo marito sull'esito degli accertamenti. Dapprima, pur con estrema difficoltà, si era costretta a pensare ad una banale dimenticanza, ma il tentativo di incanalare i pensieri in quella direzione non era durato a lungo. Soltanto pochi giorni dopo quella barricata di cartapesta si era autodistrutta, e sulle sue macerie era nata una convinzione ben diversa: suo marito sapeva della sua fine imminente e non trovava il coraggio per parlarne. Che lui fosse in difficoltà nell'affrontare un simile argomento era del tutto comprensibile, di questo ne era perfettamente consapevole, ciò che la coglieva impreparata era la sua incapacità di scovare sufficiente coraggio per prendere in mano la situazione e pretendere di sapere la verità. Prima della malattia, agevolata dal suo cognome importante, sorretta da una solida autostima e fiera del suo magnifico aspetto, nell'affrontare la vita non aveva mai avuto un solo tentennamento. In nessun altro momento della sua esistenza aveva conosciuto cedimenti o eccessi di codardia come quello che stava vivendo. Ma ora le appariva tutto diverso, più difficile, e non sapeva far altro che vagare con i pensieri rimanendo immobile, con una sigaretta che si consumava lentamente nel posacenere.
Fuori dalle finestre del soggiorno la montagna faceva sfoggio di tutta la sua bellezza aspra e maestosa. Le rocce colpite dal sole mandavano riflessi mutevoli. Con il passare delle ore passavano dal grigio perlaceo del primo mattino al color oro del mezzogiorno per arrivare al bronzo antico del tramonto. Non riusciva a far altro che osservare lo scorrere del tempo sulla superficie della pietra, quella pietra che sarebbe rimasta lì, immobile, anche quando la sua bellezza appena incrinata dal tempo sarebbe stata ridotta a qualcosa di simile alla polvere. Ormai aveva imparato a riconoscere lo sguardo che le rivolgevano le rocce, una sorta d’occhiata in tralice che la turbava e la irritava. Le pareva di percepire la loro sprezzante indifferenza al suo destino di corpo corruttibile e ne soffriva. Si sentiva inferiore ad una pietra. Persino un sasso si disinteressava al suo futuro. E questo senza che lei riuscisse a trovare la forza per affrontare la situazione, l'energia necessaria per sciogliere quel nodo di silenzio. Dal giorno dell'arrivo alla casa in montagna, suo marito le era stato vicino il meno possibile. Sfruttando ogni opportunità per rimanere fuori casa dall'alba al tramonto, e spesso anche durante le serate che lei era solita trascorrere immobile davanti al caminetto, si era completamente defilato. Poi, quando non poteva far a meno di essere in sua compagnia e di guardarla, assumeva quell'espressione che lei riusciva ad interpretare solo in un modo.
Quel giorno, durante il pranzo, le aveva annunciato che sarebbe uscito nel pomeriggio e tornato soltanto a notte inoltrata.
«Ho una cena al circolo ufficiali, non ho potuto rinunciare» le aveva detto. «Non aspettarmi alzata, probabilmente farò molto tardi».
Lei aveva ascoltato senza rispondere. Aveva soltanto fatto andare su e giù la testa per far intendere di aver capito e poi, senza finire il pasto, si era alzata ed era andata a guardare le pietre dalla finestra del soggiorno. Era il momento in cui le rocce prendevano quel colore dorato che le suscitava ricordi di gioielli indossati in fastose e fatue serate mondane. Osservò il panorama per ore, senza neppure accorgersi di suo marito che la salutava uscendo e dei domestici che la osservavano bisbigliandole alle spalle. Quando sentì le gambe dolere si mosse e si avvicinò al camino. Accese il fuoco, lo guardò per il tempo sufficiente a capire che non si sarebbe spento e sedette a terra, sul tappeto, nel solito angolo vicino al tavolo di cristallo. Passarono ancora altre ore inutili e dolorose. Le rocce, perdute nel buio che regnava intorno alla casa, non rimandavano alcun riflesso.
Alle nove un domestico le domandò se avesse qualche desiderio per la cena e lei mise in moto la sua testa per farla andare verso destra e sinistra, senza pronunciare una sola parola. Alle undici lo stesso domestico le chiese se avesse potuto ritirarsi per riposare e lei mosse il capo come aveva fatto a pranzo con suo marito.
Tutta la notte trascorse senza che lei riuscisse a far null'altro che accendere sigarette e lasciarle consumare nel posacenere poggiato sul piano di cristallo. Soltanto alle sei e mezzo del mattino, quando il grigio perlaceo dell'alba iniziò a penetrare all'interno della casa, decise di alzarsi. Le gambe erano molto intorpidite, quasi insensibili. Si rimise in piedi, molto lentamente e con grande attenzione. Andò verso il camino e osservò la cenere leggera e ormai fredda. Con l'attizzatoio la mosse lentamente. Sembrava frugarla alla ricerca di un oggetto perduto, in realtà desiderava soltanto scovare una piccola brace ancora viva. Non la trovò. Gettò l'attrezzo nella cesta vuota dei ceppi e si incamminò verso la camera che divideva con il marito. Appena l'ebbe raggiunta senti la porta d'ingresso aprirsi e, subito dopo, dei passi nel corridoio. Nello stesso istante in cui suo marito entrava nella stanza e la notava nella penombra, lei pose la sua domanda: «Perché non mi dici che devo morire?»
Lui non rispose.
«Lo so che è difficile» lo giustificò lei, «lo so che in alcuni casi è più facile tacere, ma almeno dimmi quanto mi rimane».
Suo marito continuava a non rispondere. Iniziò lentamente a togliersi il cappotto militare indossato per la sua riunione, che lasciò cadere sul letto, mentre lei, fattaglisi incontro, sfilava la pistola d'ordinanza dalla fondina che aveva sul fianco. Come se quel gesto fosse del tutto normale, lui non oppose alcuna resistenza e non pronunciò neppure una parola. Si sfilò la giacca, la ripose nell'armadio e si allontanò dalla stanza dirigendosi verso il soggiorno. Sentì esplodere il colpo mentre era intento a osservare le rocce che stavano prendendo il colore di una mattinata serena. Ebbe un sussulto lieve, quasi impercettibile. Poi rimase immobile. Sentì i domestici accorrere e gridare, proprio come aveva immaginato che sarebbe accaduto. Con estrema lentezza, mentre intorno a lui le urla salivano di tono, trasse dalla tasca alcuni fogli. Sopra di essi, in alto a destra, era impressa l'intestazione del laboratorio analisi più prestigioso della città. Erano fogli zeppi di cifre e termini clinici incomprensibili a chiunque non fosse un oncologo. Forse proprio a causa di questa palese incomprensibilità, il responsabile del laboratorio aveva aggiunto un messaggio scritto a mano. La grafia era chiara e rotonda, decisamente insolita per un medico.
Il breve scritto diceva: «Carissima signora, sono lieto di comunicarle che tutti i test effettuati hanno dato esito negativo, ancora pochissime di queste analisi e lei potrà dimenticare di aver avuto a che fare con questa malattia così inquietante. La saluto cordialmente». L'uomo ripercorse con lo sguardo quelle frasi che ormai conosceva a memoria. Mosse alcuni passi verso il portone poi, improvvisamente, tornò indietro. Fece scattare l’accendisigaro e avvicinò la fiamma alla carta. Quando il fuoco fu vicino alle sue dita lanciò nel caminetto ciò che rimaneva dei risultati delle analisi.
Attese che terminassero di incenerirsi e si diresse verso il portone sorridendo.
Uscì da casa e si diresse verso le rocce. I domestici provarono a chiamarlo a gran voce ma lui li ignorò e loro credettero di capire che il suo unico desiderio fosse di rimanere solo. Giunti a questa conclusione rimasero inebetiti a guardarsi tra loro, perduti nell'indecisione sul comportamento da tenere. Poi, come se avessero raggiunto un tacito accordo, si allinearono sul patio ad osservare l'ufficiale che si allontanava. In silenzio lo seguirono con lo sguardo. Ne osservarono i passi decisi sul ripido sentiero sassoso e, poco prima che sparisse dietro la cresta di roccia, videro i bottoni dorati dell'uniforme scintillare al sole. ■
© 2010 Daniele Borghi