Da: piccolohans @ yahoo.it
A: marcello71 @ libero.it
Oggetto: Morte di uno scrittore
Data: 22 aprile 2006
Oggi è morto il mio scrittore preferito, così dopo tutto questo tempo ho deciso di rifarmi vivo. Non so se questa è ancora la tua casella mail. E poi non so quale sarà la tua reazione, forse nemmeno m’importa. È già abbastanza meschino rivolgerti la parola senza avere il coraggio di telefonare, aspettando i tuoi insulti. Ma quelli non mi hanno mai fatto paura. Per chi ha avuto un’infanzia apatica come la mia l’odio è l’ultimo dei problemi. Anzi, mi dà un piacere sottile, quasi perverso, sentirmelo addosso. Un tempo avevo paura delle maldicenze, ma con te questo non è mai stato un problema. Hai sempre detto tutto in faccia, anche troppo. La tua sincerità alla lunga mi è venuta a noia.
Tutto alla lunga mi è venuto a noia.
Marco Rossari
Marco Rossari è nato a Milano nel 1973. Dopo aver conseguito una laurea in lettere con una tesi su Charles Bukowski, ha collaborato con diverse case editrici come editor e traduttore. Ha tradotto per Adelphi e per Baldini&Castoldi. Ha collaborato con il quotidiano «Il Riformista». Ha esordito con il romanzo Perso l'amore (non resta che bere). Per Fernandel ha inoltre pubblicato L'amore in bocca. Canzoni sconce e malinconiche.
Oggi è morto il mio scrittore preferito. Ma ho già usato quest’espressione. Tanto tempo fa ho composto il numero di casa tua sfogliando una rivista musicale. All’improvviso, mentre il telefono squillava, ho fatto appena in tempo a leggere la notizia della morte di un giovane cantante. In quel momento Daniela ha risposto.«Pronto?»
«È morto il mio cantante preferito».
Lei l’avrà classificata come una delle mie tante stranezze. (Mi voleva bene Daniela: mi ero divertito al vostro matrimonio in quel ristorante fuori città. Ricordo male o ci siamo fatti uno spinello con tuo zio?) Col tempo ho imparato a diffidare anche di quel cantante, come di ogni cosa. Così forse la frase giusta per tornare a scriverti è proprio questa.
Oggi è morto il mio scrittore preferito. (Hai letto la notizia? Ah, già: tu ai giornali dai solo una scorsa. Anche all’Orso piaceva questo scrittore, ne abbiamo parlato a lungo. Ma in casa editrice non s’è fatta vedere. Qualche minuto fa mi ha chiamato sul cellulare. «Ha saputo?» Mi sono quasi commosso.) (Ti chiederai chi è l’Orso, ma ti devo proprio raccontare tutto subito? Per ora ti dico solo che me la faccio con sua figlia.)
Questa primavera mi snerva. Mi fa pensare al nervoso che mi metteva il tuo sguardo quando si piantava su Anna, vestita sempre più leggera. Non hai mai imparato a stare al tuo posto e Daniela ha sempre tollerato. Il mio scrittore preferito. Ma ha senso un’espressione del genere? Davvero questo scrittore aveva un senso per me? Se anche le persone possono smettere
di significare qualcosa, figurarsi le parole.
Ti rivedo a buttare la cenere come facevi tu (colpendo il filtro con il pollice) e a sbuffare. «Ti fai troppi problemi».
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Oggetto: Su con la vita
Data : 23 aprile 2006
Mi rifaccio vivo, ti ho scritto ieri. Pensavi che non lo fossi più? Lo speravi? Credevi che il decorso fosse così veloce? Ma no. Qualcuno ti avrà raccontato del mio coraggio o della mia tranquillità. Palle, è solo indifferenza. Insomma, su con la vita. Il cazzo mi funziona ancora.
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Oggetto: Credere
Data: 25 maggio 2006
Caro il mio Marcello,
non mi faccio sentire per anni, ti scrivo e poi sparisco subito per un mese. Ma sì, mi annoio. Nelle parole non credo più. Ho smesso di scrivere. Chissà che effetto ti fa, tu e Daniela eravate tra i pochi a crederci. Invece io non ne sono mai stato sicuro. Almeno non mi vantavo di scrivere, non andavo a vendere aria fritta in giro come fanno tutti. No, non ne ero sicuro, però ci credevo. Speravo che le parole un giorno sarebbero traboccate. Tenevo appiccicato alla lampada di fianco al computer un post it con una frase di Bob Dylan che la diceva lunga: «Il destino è sapere qualcosa di te stesso che nessuno sa, come un quadro del tuo futuro nella tua mente; ma è una cosa che devi tenere per te stesso, perché è molto fragile, se lo dai in pasto al mondo ti distrugge».
Be’, mi ha distrutto lo stesso. Ora credo solo nell’Orso. (E in sua figlia, per certi versi.)
Credo nella malattia, nel corpo. L’unica persona in cui potrei ancora credere è Anna, che non vedo da quasi due anni.
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Oggetto: L’effetto che fa
Data: 1 giugno 2006
Non voglio scriverti una lettera di riconciliazione. Non voglio andare con ordine. Non voglio dividerla in capitoli.
1. Perché sono sparito nel nulla cinque anni fa, troncando un’amicizia lunga dieci anni.
2. Quanto mi dovrebbe dispiacere averlo fatto.
3. Che cosa faccio ora, che cosa sono ora.
4. Che cosa fai ora, che cosa sei ora.
5. Perché non riallacciamo i rapporti.
Tu detesti queste cose, e non ti sei mai fidato di me, nemmeno quand’ero sincero. La diffidenza è il tuo mestiere. Con la tua ragazza, con gli amici, con l’uomo della strada. Perfino con la ragazza altrui. Ricordo quella volta che dovevo venire a cena da te e Anna era in ritardo perché arrivava da Forlì. Ho sentito un tuo irrigidimento al telefono, mentre facevi un calcolo mentale delle ore che ci volevano per tornare dalla Romagna. Sei sempre stato un aguzzino, un inquisitore, uno psicopatico.
Diffidavi a tal punto che veniva voglia di confermare i tuoi pregiudizi.
L’altro giorno ti ho sognato, come altre volte. Eravamo seduti allo stesso tavolo e ti dicevo: «Sai che c’è di nuovo?» Poi cominciavo a lanciarti addosso tutto quello che c’era sulla tavola. Avrei dovuto farlo dal vivo perché non ti sopportavo più.
E allora perché ti scrivo? Per vedere l’effetto che fa.
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Oggetto: Clandestinità
Data: 5 giugno 2006
Un po’ di informazioni pratiche, dai.
So che non stai quasi più a Milano. Nemmeno io. Di tutto il vecchio gruppo, quelli a vivere da qualche altra parte siamo stati proprio io e te, che non abbiamo mai viaggiato. So che vivi in Umbria, che hai una donna viziosa, che lavori il giusto. So che ti sei lasciato con Daniela poco dopo la nascita di Piero, il bambino che non ho mai visto.
Io vivo a Torino. Non sono stato io a scegliere di cambiare città, come potrai immaginare. (Ma si può definire cambiare città, vivere a un paio d’ore di treno?) Mi ero appena licenziato e cercavo un lavoro. Avevo un amico che stava qua e lasciava un posto di redattore in una piccola casa editrice. Mi sono detto: perché no. (Una sorta di litote: la figura retorica della mia vita.) Lo stipendio è scarso, il lavoro poco.Va bene così.
Vivo con altre tre persone in un appartamento del centro. Duecento euro per una stanza con un materasso per terra, una vecchia scrivania, qualche scaffale. Dietro a un ripiano l’altro giorno ho scovato un giornale vagamente pedofilo, che apparteneva al vecchio inquilino, e mi sono masturbato, tanto per vedere l’effetto che mi faceva. Ho una radio. L’altra sera ascoltavo Miles Davis e una vicina ha bussato, chiedendo che la smettessi di suonare la tromba.
Mi sveglio verso le dieci, con uno sforzo immenso. Faccio la doccia nella vasca incrostata ed esco in bici. Una mezz’ora e sono arrivato. Bevo il caffè nel bar di fianco al portone del vecchio palazzo che ospita la casa editrice. Salgo in un vecchio ascensore sferragliante per cinque piani. Non incontro nessuno. I colleghi sono pochi e non me li hanno presentati. Se trovo la porta chiusa, l’imbarazzo è grande perché mi tocca suonare. La segretaria mi viene ad aprire e non sa mai che dire, anche se resta l’unica che saluto in ascensore, quando ci tocca salire insieme (con gli altri, è il silenzio). Sa che lavoro con l’Orso, solo questo.
La casa editrice sembra disegnata in modo da evitare i contatti. L’ingresso è a metà di un lungo corridoio che corre verso destra e verso sinistra. A sinistra credo che ci siano gli archivi e a destra la redazione. A sinistra l’Inconscio e a destra la Coscienza. Davanti ci sono due porte: una dà sull’ufficio del … e l’altra su quello dell’Orso, dove sto io. Noi siamo il Preconscio.
Quindi entro di soppiatto in casa editrice e in due metri sono chiuso dentro al mio stanzino. L’Orso arriva solo verso l’una, io sfoglio il giornale oppure leggo un libro. Sento arrivare qualche rumore dalle altre stanze. Fruscii, colpi di tosse, frasi smozzicate. La redazione è composta da tre persone che impaginano e fanno da ufficio stampa. La casa editrice ha un catalogo che la fa viaggiare su binari sicuri, quindi non dà grande importanza a copertine o recensioni. Non so come, i libri attraversano questo strato di polvere che ci copre tutti e riescono ad arrivare in libreria. Qui faccio fatica a localizzarli. Quando poi li scorgo sul bancone dei magastore in centro mi chiedo se sono davvero nostri. Incredibile, ho usato la parola «nostri»: di solito mi riesce così difficile concepire il noi aziendale.
Be’, immagino che appartato là, dietro al vetro da peepshow dove mi osservi parlare, vorrai sapere di cosa mi occupo. La casa editrice si occupa di psicologia e dintorni. Freud, Jung e compagnia bella. L’ossatura del catalogo sono proprio le opere dei due mostri. Le colonne d’Ercole della psiche.Tutto quello che concerne la Sfera passa di qui, per queste stanze silenziose, dove io vivo come un clandestino.
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Oggetto: d’autore
Data: 10 giugno 2006
Ieri l’Orso non si è fatto vedere per tutto il giorno. Faceva un caldo infernale, così sono andato al cinema nel tardo pomeriggio, almeno c’era l’aria condizionata. Un film d’autore grazie al quale mi sono addormentato dopo solo mezz’ora.
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A: marcello71 @ libero.it
Oggetto: …
Data: 11 giugno 2006
Ci sono due anime in questa casa editrice. Una è il… e l’altra è l’Orso. Le due anime non si parlano, proprio come me e te.
Il … è il dirimpettaio, il coinquilino, l’Altro. Anzi, il Perturbante. Si occupa della saggistica storica. Briciole, in pratica. Ma è convinto di essere la salvezza della casa editrice. La butta molto sul politico e ottiene qualche riscontro dai media, ma non capisce che è il silenzio del catalogo, la Forza del Passato, a tenere a galla anche lui. Si sbatte, corre a Roma e a Milano, sbraita al telefono, quando invece la polvere dell’archivio vale un anno del suo lavoro. Lui e l’Orso hanno litigato anni fa e ormai non si rivolgono più la parola. L’Orso non lo nomina nemmeno più. Così quando allude a lui, indica con il pollice la stanza alle sue spalle e dice: «Perché il … non voleva». I puntini di sospensione sono suoi.
Chissà, forse anche tu ti riferisci a me in questo modo.
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Oggetto: L’Orso
Data: 12 giugno 2006
Che cos’è l’Orso. Non è facile descriverla. È una vecchia signora, prima di tutto, ma non immaginartela decrepita. Ha 65 anni e vive sola, sulle colline. Il marito l’ha lasciata una decina d’anni fa, credo per una ragazza più giovane, anche se lei non se ne duole (qualche sorriso amaro, mentre si parlava di un libro di Philip Roth; qualche allusione). Un bel matrimonio, credo, finito così. L’Orso non si lamenta mai. Ha scelto di vivere per il lavoro. Ti ho scritto che non arriva prima dell’una, ma poi resta in casa editrice fino a mezzanotte. Ha dei ritmi tutti suoi. È confusionaria, arruffata, distratta. Fuma tantissimo, una sigaretta dietro l’altra. Ha una capigliatura alla Mafalda, ma ancora più folta. Si nasconde il viso. A malapena si riesce a scorgere la pelle olivastra (è nata a Roma, in realtà), le occhiaie, il sorriso triste tanto più simile a una smorfia. La sigaretta spunta fuori dai capelli e sembra il galleggiante dei sub, a segnalare che, dietro il sipario perennemente chiuso dei capelli, c’è vita. È una donna grossa e porta sempre vestiti larghi, abbastanza eleganti, con uno zoccolo o un sandalo, anche in pieno inverno, che le danno un tocco più vero e mediterraneo. Parla tantissimo, forse perché passa la maggior parte del tempo in silenzio, ma anche perché le piace ragionare ad alta voce (temo che lo faccia anche a casa da sola). Una voce abbastanza stridula, ma non troppo: vulnerabile. Nonostante la barriera del fumo, dei capelli e della mole, è ancora molto femminile. La donna che è in lei è sopravvissuta agli anni e al dolore e si lascia intravedere quando appoggia un braccio alla libreria di fianco alla sua sedia, il modo di inclinare il polso, la sensualità del gesto, la noncuranza con cui è ancora femmina. Mi piace guardarla. Abbiamo le scrivanie una di fronte all’altra e parliamo un sacco, di libri soprattutto. Una volta mi ha raccontato che uno degli impulsi che la trascinano fuori dal letto alla mattina è il desiderio di capire il titolo dei libri che scorge sulla grande libreria che ha dall’altra parte della stanza.
«Riconosco dal dorso le case editrici. Un Einaudi, un vecchio Rizzoli. Riesco anche a dire le collane, ma poi uno non mi è chiaro e allora mi alzo…»
Mi ha ricordato di quand’ero più giovane e avevo quella stessa passione. Lo facevo anch’io, appena sveglio.
Un pomeriggio mi ha raccontato che ha perso un figlio di tre anni. È uscita fuori così, non ricordo bene come. Lei ha balbettato qualcosa per minimizzare: «È passato tanto tempo», ma continuava a scuotere la testa, come per scacciare un moscerino.
Detesta i libri di formazione, come me. Il giovane Holden, Siddharta, Sulla strada.Tutti quanti. Sì, è un po’ snob, il giusto. Viene da una ricca famiglia romana, di sinistra.
Ho scritto che vive sola, ma fino a poco tempo fa aveva un cane. Un bel cagnolone che, stando alle descrizioni, doveva assomigliarle parecchio. È morto un paio di giorni dopo il mio arrivo. Forse è lì che, volenti o nolenti, si è creata una certa confidenza.
«Credo che il cane abbia cercato di arrivare fino alla mia stanza. Lui dorme fuori, e l’ho trovato in cima a questa scalinata esterna, sotto la mia finestra…» Lascia sempre un po’ il discorso in sospeso, come fumo. Guarda fuori, scuote il capo e torna a lavorare.
Fa tutto lei. Parla con gli autori, corregge dattiloscritti e bozze, decide le ristampe. Affossata sulla sua poltroncina, con gli occhietti chini sempre sulle carte e i polpastrelli gialli di nicotina, è lei che guida la nave nel silenzio delle stanze.
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A: marcello71 @ libero.it
Oggetto: La figlia dell’Orso Data: 15 giugno 2006
L’altro giorno ho rivisto la figlia dell’Orso. Siamo stati insieme nel tardo pomeriggio, regalandoci anche un brivido di paura quando abbiamo sentito il cancelletto aprirsi, ma non era lui. Lei ha parlato del suo nuovo progetto su Jobim e mi ha fatto sentire in cuffia un brano appena registrato. Cantava da dio, come al solito. «L’unica certezza della mia vita è la voce di mia figlia»: ecco cosa ha detto l’Orso. Non è commovente?
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Oggetto: Forme di vita sconosciute
Data: 20 giugno 2006
Sono contento che tu non risponda, devi avere davvero cambiato casella. Mi piace questo gioco: è un po’ come scrivere un diario e mettere ogni pagina nella classica bottiglia del naufrago. Sei uno psicoanalista muto. Queste parole vagano per la rete e approdano a un’isola disabitata. Chissà quante caselle morte esistono nel web, aperte solo per mandare una lettera di insulti o una foto pornografica. Pozze di acqua morta, vicoli ciechi. Invio messaggi verso lo spazio profondo, verso forme di vita sconosciute.
Chissà che tipo è tuo figlio: ha già il tuo sguardo strafottente? Non riesco a immaginarmelo.
Io non ho storie regolari da un po’. A parte la figlia dell’Orso, sono stato per qualche mese con una ragazza, appena arrivato. L’ho conosciuta a una festa sui colli, a casa di gente che nemmeno conoscevo. Una grande villa con tanto di piscina. Era accompagnata da un bellimbusto che, per ostentare il fisico, ha fatto il bagno a mezzanotte. È stato in quel momento che sono riuscito a chiederle il numero di telefono. Mi ha detto che faceva teatro nel tempo libero e la scusa, inutile, è stata che avevo scritto qualcosa: magari lei avrebbe potuto darci un’occhiata. La prima sera siamo usciti in bici, quasi romantici: seduti sotto un albero del parco, le ho letto qualche pagina raffazzonata tra i vecchi scritti e l’ho baciata dopo l’ultima parola, così scontato che adesso mi vergogno quasi a scriverlo. Non è durata molto. Una mattina mi ha lasciato da solo a casa sua perché doveva andare a pranzo dai suoi, io ero ancora troppo sbronzo anche solo per scendere dal letto. Ho frugato nel suo comodino e trovato un diario in cui c’era scritto che s’era innamorata. Speravo in un adulterio e invece ero proprio io. È finita così.
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Oggetto: Disease
Data: 23 giugno 2006
La malattia è stazionaria. Continuo a prendere farmaci a manetta. La terapia si chiama HAART: sta per High Aggressive Antiretroviral Therapy. Conduco una vita Haartcore, insomma.
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Oggetto: Tempo
Data: 1 luglio 2006
Torino mi ricorda la città triste della vulgata. Giro in bici, passo un sacco di tempo da solo, a leggere nei bar, a passeggiare per il Valentino. Mi sento svuotato, come se non avessi niente da dare a nessuno. A volte in redazione mi masturbo, anche quando c’è l’Orso. La osservo china sulle bozze e lo faccio lentamente, metodicamente, pensando a qualche donna del passato o guardando di nascosto un sito pornografico. Lei non può arrivare a vedere sotto la mia scrivania. Vengo in silenzio, sul pavimento. Sono orgasmi strani, quasi struggenti. Poi pulisco con un fazzoletto e torno a lavorare. Lei non si accorge di niente.
Priapismo inutile, esibizionismi d’accatto, tentativi di sporcare la vita degli altri: sono tutte cose che abbiamo avuto in comune, insieme all’assenza del padre. Lasciare una traccia oscena: è necessario, no?
Nei giorni successivi a una sbronza evitarlo mi sembra impossibile. Ho una sensazione torbida di cui non riesco a liberarmi. Mi è anche capitato di masturbami al cinema, smanettando dentro la tasca come un vecchio ai giardini pubblici. E venire nelle mutande, sentire il calore del seme, l’odore di sperma sulla mano, mentre il film continua a scorrere nel buio.
Saresti fiero di me.
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Oggetto: La figlia dell’Orso II
Data: 3 luglio 2006
L’Orso mi aveva parlato così tanto di quella figlia cantante, che mi ero fatto certe aspettative. Non mi sbagliavo. È passata un pomeriggio a salutare la madre, aveva un impermeabile di pelle marrone e gli stivali. Qualcosa di fatuo, di vanitoso, le colorava gli occhi e le labbra, quella ciocca di capelli che le copriva un occhio. Mi ha salutato gentilmente, ma non me la sono bevuta. Dopo un paio di mesi è venuto fuori che forse aveva bisogno di una consulenza per un testo in inglese sul libretto di un cd. L’Orso parla solo il tedesco, così me l’ha passata. Ci siamo visti per un caffè in centro e mi ha detto cosa dovevo fare. È stata l’occasione per passare un paio di giorni fuori casa editrice, con la scusa del lavoro. Ho bighellonato per la biblioteca del centro, aggiustando l’inglese abborracciato di chi aveva tradotto. Ma soprattutto ho osservato le foto del libretto. C’era lei in diverse pose. Una in particolare mi ha colpito: è appoggiata contro una parete in studio di registrazione, di profilo, con in mano un foglio. Davanti ha il microfono e una luce calda cade da chissà dove, gialla e arancione. Lei ha i capelli ricci e lunghi, vagamente rossastri. Sembra molto bella, ma non è quello. Nel broncio, nelle labbra corrucciate che studiavano lo spartito, c’era un indizio di impegno, di fragilità. Lo spiraglio dove infilare il piede.
L’ho chiamata per darle il lavoro e questa volta ci siamo detti che potevamo anche concederci un aperitivo. Mi ha portato in un posto orribile, pieno di gente tirata. Il vino le ha un po’ sciolto la lingua, e mi ha detto che viveva con un uomo da dieci anni, che non erano sposati e perfino che le cose non andavano tanto bene. È davvero una chanteuse, ho pensato. Si muove come una diva: non ti ascolta mai, sorride con troppo compiacimento, ha bisogno di attenzione. Io l’ho ascoltata e basta, facendo qualche battutina mordace per farla ridere, ostentando quella sicurezza che non ho mai avuto. Al terzo bicchiere ho sentito che potevo osare. L’ho baciata. Ho pagato io e lei si è anche dimenticata di darmi i soldi pattuiti per il lavoretto. Nella sua macchina non voleva più baciarmi. Ma avevo capito che era solo una questione di tempo.
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A: marcello71 @ libero.it
Oggetto: Casa
Data: 4 luglio 2006
Tante volte resto a casa con i miei coinquilini. Uno è un bravo ragazzo, figlio di un ferroviere e orfano di madre. Lavora al mercato. Gli altri due sono una coppia. Lei una ragazza sarda, molto sveglia, con tratti selvaggi, le gengive colore della terra. Lui è un fricchettone scemo. Un giorno per strada abbiamo visto una pubblicità progresso sulla guida sicura, con la foto di un paesino arroccato sui monti e una scritta per cui ogni anno in Italia scompare un paese intero. Sulle autostrade, era il sottinteso, ma lui l’ha preso alla lettera, chiedendosi quando lo spopolamento delle province avrà fine. Stanno tutta la sera a fumare spinelli e giocare a carte. Non capiscono cosa ci faccio a Torino. Mi prendono in giro perché sono milanese, come tutti qui. Sarà il complesso di inferiorità (ma perché poi?). Ho sentito gente dire: «A Milano avete la nebbia». No, dico: fossimo a Rio. I Murazzi sembrano il centro dell’universo. A me starebbe anche bene, perché il mio universo ha quella portata, ma a sentire loro sono il centro di una galassia meravigliosa.
Chissà se hai gli stessi problemi lì vicino a Perugia, chissà se hai gli stessi pensieri, chissà se ti viene voglia di scriverli a qualcuno. Ma tu non hai mai avuto pensieri di questo tipo. Non hai mai saputo nemmeno scrivere.
«Ti fai troppi problemi». Ecco il tuo vecchio motto. Ma non è detto che chi non se ne fa nessuno sia più felice.
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Oggetto: L’ovatta
Data: 5 luglio 2006
La figlia dell’Orso sta con un tizio manesco. Forse questo l’aiuta a sentirsi una piccola Billie Holiday. Non che la cosa abbia cadenza quotidiana, ma è capitato un paio di volte che alzasse le mani, con mille scuse e i soliti pentimenti. Geloso, semplicemente, e a ragione. Così rischiamo anche noi, rischio anch’io, quando lo facciamo nel loro lettone, senza cambiare le lenzuola, sfacciatamente.
Anche tu avevi i tuoi scatti d’ira. Ricordo di quando hai spaccato il parabrezza della macchina con un pugno durante una litigata con Daniela. Ricordo di quella volta in cui volevi pestare a sangue un extracomunitario perché ti era entrato in macchina. E ricordo quell’episodio allo stadio, da ragazzini: pioveva e avevi strizzato il cappello sul tizio davanti, quando si era voltato gli avevi detto: «Problemi?» e io avrei voluto morire. Non mi mancano queste fitte irrazionali, che siano tue o del resto del mondo. Vivo sospeso in questo clima afoso, che sembra stridere con l’immagine austera di Torino. Nell’ovatta, se preferisci. Però tossica.
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A: marcello71 @ libero.it
Oggetto: Perversioni
Data: 7 luglio 2006
Io lo so perché ti scrivo. Non tanto perché abbia qualcosa da farmi perdonare. Scrivo a te perché hai sempre assolto qualsiasi perversione. Non perdonavi l’insincerità, anche sulle inezie.
Tutto ciò che è deviato ti sembra puro.
«Le perversioni sono vere, non si possono controllare», dicevi per assolverti.
E così ti sei permesso qualsiasi cosa, perfino quando Daniela era incinta (forse soprattutto quando Daniela era incinta). Non ti faccio la morale, lo sai bene. Però ti conosco. Il tuo destino è corrompere, spezzare il guscio che protegge le persone e trovare la loro verità più recondita, quella sessuale, un paese straniero in cui ti sei sempre trovato a tuo agio.
Per le piccole cose invece, guai. Ho un ricordo di noi a scuola, da ragazzini. Una partitella di calcio. Io che scatto con il pallone e tiro, probabilmente fuori. Mi corri incontro urlandomi che dovevo passartela, che hai chiamato palla come un pazzo.Ti rispondo che non avevo sentito e sto dicendo la verità, anche perché allora avevo un certo timore reverenziale. Fai una faccia indignata, quasi offesa. «Potevi dirmi che volevi tirare, non ’ste cazzate». Sono marchiato come bugiardo. E sei segnato anche tu, perché capisco che quello è un punto debole.
Oggi che ti racconto tutto, che ti parlo così, senza peli sulla lingua, ti senti meglio? O non ci vedi chiaro nemmeno qui?
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A: marcello71 @ libero.it
Oggetto: Euforia
Data: 8 luglio 2006
L’Orso non si è fatta vedere per tre giorni. Ieri mattina ho chiamato e mi ha detto che non era stata tanto bene e il dottore le aveva consigliato di fare qualche esame. Sono passato da sua figlia e lei mi ha detto che era preoccupata per lei. Il suo compagno era via per qualche giorno, di tempo ce n’era. Abbiamo mangiato e guardato un vecchio film. Lei si è appoggiata alla mia spalla, si è stretta a me. Dopo l’abbiamo fatto senza preservativo. Stamattina sono andato in riva al fiume, anche se piovigginava. Mi sentivo euforico, distrutto.
Non le ho detto che sono sieropositivo.
Da: piccolohans @ yahoo.it
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Oggetto: Cartine per orientarsi
Data: 14 luglio 2006
L’Orso non sta bene, un brutto tumore al fegato, che forse preso in tempo eccetera. Devono portargliene via una piccola parte, a quanto pare, e poi si vedrà. Tutto questo me l’ha detto la figlia, ovviamente, in lacrime. L’Orso mi ha solo detto che per un po’ non potrà occuparsi dei libri, che arriva una specie di supplente, il vecchio caporedattore fidato, con cui lavorerò. Le ho già detto che non ci voglio essere e, mentendole, ho millantato un lavoro a Milano che mi era stato offerto qualche mese fa. Mi sono inventato che a settembre torno a casa mia, per così dire, prendendomi l’estate per tirare il fiato. Si è detta felice e dispiaciuta, ma non mi ha invitato ad andarla a trovare. In ufficio non avevo niente e questa storia si è chiusa in fretta. Sono tornato a casa, dove mi aspettavano gli spinelli e le carte degli altri, ma mi sono chiuso in camera a dormire, anche se erano le sei del pomeriggio. Aveva smesso di piovere, così ho lasciato la finestra aperta. Mi sono svegliato nel cuore della notte in preda ai brividi. Sentivo un odore disgustoso: forse era il materasso, oppure la moquette sporca. Ho chiuso la finestra e sono uscito dalla camera, mi sono seduto al buio in cucina con un bicchiere d’acqua sul tavolo. Avevo freddo, così sono tornato di là e mi sono vestito. Tanto valeva uscire. Ho preso la bici e sono andato sotto casa della figlia dell’Orso. Era felice di vedermi, l’ha scambiato per un gesto romantico. Questa volta abbiamo usato il preservativo, perché aveva le sue cose. È rimasto un po’ di sangue sull’asciugamano. Guardavo quelle macchie come un rorscharch pornografico, in cui leggere la lingua muta del proprio corpo e interpretarne gli umori. La mattina dopo prima di uscire, mentre lei era in bagno, ho infilato la cartina del preservativo in un paio di belle Church.
Da: piccolohans @ yahoo.it
A: marcello71 @ libero.it
Oggetto: Epilogo
Data: 20 luglio 2006
Stamattina ho girato per il parco senza pensare a niente. Si moriva dal caldo e c’eravamo solo io e quattro cani con i relativi padroni. Sull’argine del Po ho visto un mucchio di siringhe, chissà se sono lì ancora dagli anni ’80. Volevo masturbarmi ma non ce l’ho fatta. Ho pensato che avrei dovuto scrivere ad Anna invece che a un figlio di puttana come te. Così sono andato nell’internet point dove digito adesso e ho trovato una risposta dalla tua casella mail, diceva solo che era piena e che d’ora in poi i messaggi sarebbero tornati al mittente.
Sono contento. Non mi hai sentito vuotare il sacco, amico mio. Continuerai a immaginarmi muto e inaffidabile, per quanto malato. Non sei stato l’analista di questi racconti sparsi e neppure lo spettatore del peepshow. Ed è giusto così. Non è mai stato il tuo ruolo. A te piaceva ascoltare con attenzione per dimenticare tutto due secondi dopo, e qui ho ritrovato il muro ottuso che hai sempre rappresentato. Parlavo con uno specchio crepato e continuo a farlo. Forse in omaggio all’Orso, che ha sempre monologato nella sua villona, come una vecchia bisbetica. Stasera pensavo di andare a trovarla senza preavviso. Vorrei starle vicino, a modo mio. Ho una strana idea in testa. Non so dove mi porterà, ma di sicuro in qualche altro paese straniero. ■
© Copyright 2007 Marco Rossari (originariamente pubblicato su "Fernandel" n. 59, gennaio-marzo 2007).