L’
appuntamento era alle dieci in via Pirandello numero quattro.
Michela Tilli
«Strana la vita. A volte, uno psicoterapeuta può essere la soluzione giusta per fare un po’ d’ordine. Sempre che poi non venga fuori che in realtà è lui ad aver bisogno di te...»
Michela Tilli è nata a Savona e vive a Monza, dove si divide fra il lavoro con le case editrici, i suoi due bambini e la scrittura. Il naso è il suo primo racconto pubblicato, a cui ne sono seguiti diversi altri, e soprattutto i romanzi La vita sospesa e Tutti tranne Giulia.
Alle dieci meno un quarto avevo già parcheggiato la macchina, pochi isolati più in là, e mi trovavo in piedi davanti al cancello nero a scorrere con il dito i nomi sul citofono. Pesce, Bellazzi, Colombo, Brambilla, Sironi, dott. P. Eccolo qua, dottor P., psicologo psicoterapeuta. Prima di schiacciare il tasto guardai di nuovo l’orologio. Mancavano ancora quattordici minuti.Michela Tilli è nata a Savona e vive a Monza, dove si divide fra il lavoro con le case editrici, i suoi due bambini e la scrittura. Il naso è il suo primo racconto pubblicato, a cui ne sono seguiti diversi altri, e soprattutto i romanzi La vita sospesa e Tutti tranne Giulia.
Data la delicatezza della situazione mi ero mossa con un po’ di anticipo. Avrei potuto suonare per poi aspettare di sopra, ma mi bloccava il pensiero che forse dicendo alle dieci il dottor P. voleva dire esattamente alle dieci. Di sicuro in quel momento nel suo studio c’era un’altra persona. Non poteva certo interrompersi per aprire la porta a me.
Riflettei sul modo di far passare il tempo. Quattordici minuti sono tanti quando non si ha niente da fare. Guardai nella borsa. Avevo dei fazzoletti di carta, l’agenda, il telefono. Il telefono poteva essere utile per darsi un contegno, nel caso qualcuno mi stesse guardando dalla finestra. Era una palazzina bassa, di soli tre piani, ma la facciata era larga e le finestre che davano sul cancello erano almeno nove. Una di quelle poteva essere la finestra dello studio del dottor P. Controllai se mi erano arrivati dei messaggi e giocherellai con i tasti a caso. Aspettai un po’, ma niente. Anche l’occhio del videocitofono mi guardava con un’espressione inquietante.
L’orologio segnava meno dodici. Spensi il telefono e mi incamminai in una direzione a caso, per mettere in atto una strategia che mi aveva già salvato in situazioni simili: sei minuti dritto davanti a me e poi dietrofront, lo stesso tempo per tornare. La puntualità era garantita.
Al ritorno accelerai leggermente il passo. Alle dieci meno un minuto suonai il citofono. Il cancello si aprì quasi subito, senza che nessuno mi avesse chiesto chi ero, e una voce maschile mi disse di salire al secondo piano.
Trovai una porta socchiusa ed entrai in una sala d’aspetto arredata in modo sobrio. Tre sedie di legno con la seduta di stoffa allineate contro la parete di fondo. Da una parte, un tavolino basso con qualche rivista di viaggi. In terra un tappeto dai colori caldi a proteggere il parquet.
Mi sedetti sulla sedia centrale e attesi. Alla parete di fronte a me erano appesi due quadri, vedute cittadine. Alla mia destra, invece, vicino alla porta dello studio, alcuni attestati in cornice. Mi alzai per osservarli meglio.
Come avevo immaginato erano i diplomi del dottor P., laurea, specializzazioni, corsi, iscrizione all’Ordine degli psicologi. Li lessi attentamente uno per uno, non tanto per accertarmi che il dottor P. avesse studiato abbastanza da potermi essere d’aiuto, quanto per farmi un’idea dell’uomo, scoprirne l’età, per esempio. Un certificato riportava la data di nascita, un rapido calcolo, cinquantadue anni. Mi parve un’età rassicurante.
In quel momento la porta alla mia destra si aprì e ne venne fuori una signora molto alta, che se la richiuse alle spalle. Indossava un pesante cappotto verde. Mentre mi passava davanti, abbassai lo sguardo. Non sapevo ancora come si comportano tra loro i pazienti di uno psicoterapeuta. Si salutano? Fanno finta di non vedersi? Da parte mia, che non sapevo nemmeno perché ero lì, non avevo motivo di vergognarmi, ma forse la signora non voleva sottolineare la circostanza scambiando una parola con una sconosciuta. Quando mi salutò con un gran sorriso, mi trovai spiazzata e risposi un buongiorno a denti stretti.
Pochi secondi dopo la porta si aprì nuovamente e un uomo di media statura, con i capelli scuri e gli occhiali mi disse di accomodarmi. Mi strinse la mano e poi andò a sedersi dietro alla scrivania.
Lo studio era più piccolo, con poltrone al posto delle sedie, le pareti nude e una piccola libreria piena di testi di psicologia. Il dottor P. portava una camicia sotto un maglione accollato, tutto sui toni del beige. Sembrava più giovane dei cinquantadue anni che gli avevo dato e, forse per questo, mi fece una strana impressione. Lo osservai attentamente mentre si presentava e cercava di mettermi a mio agio e mi convinsi che l’età non c’entrava niente, aveva proprio qualcosa di strano. Era la sua faccia.
Quando smise di parlare, lo stavo ancora squadrando. Ci fu un lunghissimo minuto di silenzio. Mi sentii un po’ in imbarazzo, perché non avevo capito che cosa mi aveva appena chiesto e non sapevo che cosa dire. Come quando a scuola un professore ti interroga a tradimento, mentre copi i compiti dell’ora dopo. Il dottor P. mi sorrise. Doveva essere abituato agli inizi lenti e silenziosi. O forse sapeva di avere qualcosa di strano sulla faccia.
Non so esattamente perché sono qui, gli dissi optando per la pura e semplice verità.
È normale, mi rispose lui. Provi a dirmi che cosa ce l’ha portata, come ci è arrivata. Tramite chi, per esempio.
Mentre gli raccontavo come ero arrivata da lui, continuavo a scrutare uno a uno tutti gli elementi del suo viso. Avevo scartato la voce, che era una bella voce e mi era già familiare dopo averla sentita una volta al telefono. Gli occhi erano camuffati dalla montatura degli occhiali, che non era delle più leggere, ma sembravano non avere niente di strano. Erano vivaci e quando dissi che ero lì perché avevo sentito il bisogno di fare un po’ d’ordine mi sorrisero.
Non sapevo esattamente in cosa dovessi fare ordine. Erano anni che l’idea di andare da uno psicologo mi tormentava. Veniva a galla ogni tanto e per lunghi periodi si intrometteva in tutti i miei pensieri, per poi sparire di nuovo. Ed erano anni che la ributtavo sotto, vuoi perché mi spaventava, vuoi perché nei momenti buoni mi piacevo così, con le mie ossessioni e il mio equilibrato disordine interiore. Ma qualche mese prima era accaduto qualcosa, avevo smesso di dormire e l’equilibrio si era rotto. O adesso o mai più, avevo pensato. Avevo chiesto consiglio al mio medico. Ottenuto un nome e un numero di telefono, avevo aspettato un po’ e poi avevo chiamato per prendere un appuntamento. Era stato più facile del previsto. Cercai di leggere nella sua espressione se si trattava di una motivazione sufficiente. Una delle cose che mi aveva frenato era la paura di non saper spiegare che cosa ci facevo lì. Immaginavo che mi avrebbe detto, e allora? Che cosa vuole da me? Non si rende conto che c’è gente che sta male davvero?
Osservai bene i movimenti dei suoi muscoli facciali e delle sue mani, buffamente sospese sopra gli avambracci appoggiati al bordo del tavolo, cercando di capire se le mie spiegazioni erano abbastanza convincenti. Attese qualche secondo, assorto, e poi sciolse i miei dubbi: bene, o meglio, male, pareva che stessi abbastanza male. Ma tutto sommato, bene, perché avevo fatto il passo giusto e quindi bene, decisamente bene.
All’improvviso le sue mani a mezz’aria fecero uno scatto e con l’indice destro il dottor P. andò ad aggiustarsi gli occhiali all’attaccatura del naso. Quel gesto repentino mi riportò alla mente che c’era qualcosa di strano sulla sua faccia. Ed era lì, proprio in quel punto.
È normale che nella vita di una persona ci siano dei momenti in cui si ha l’impressione di aver perso l’orientamento, diceva, mentre abbassava lo sguardo e si aggiustava sulla poltrona contorcendosi. Non bisogna allarmarsi, ma nemmeno sottovalutare i segnali che ci giungono, e con la mano tornò a controllare gli occhiali, ma senza toccarli, restando alla distanza di qualche centimetro.
Fu in quel momento che il pensiero, fulmineo come una rivelazione, mi attraversò la mente. Non erano gli occhiali che stavano cadendo, era il naso.
Come avevo fatto a non accorgermene subito? È così potente la forza dell’abitudine, che non riusciamo a cambiare prospettiva nemmeno davanti all’evidenza? Ma non c’erano dubbi. Il naso gli stava davvero cadendo. A ogni suo movimento oscillava pericolosamente di qua e di là rimanendo attaccato solo per la pelle, che sembrava intatta, come se al di sotto l’osso fosse staccato di netto. Con mia grande sorpresa, lui faceva come se niente fosse, limitandosi ad aggiustarsi gli occhiali di tanto in tanto.
Non avevo mai conosciuto una persona alla quale stesse per cadere il naso. È proprio vero che c’è una prima volta per tutto. E se gli cade adesso che faccio, pensai.
Non so se fosse il momento giusto ma, per necessità, gli sorrisi. Forse non avevo avuto un gran tempismo, perché il mio sorriso lo inchiodò per un attimo sulla poltrona. Si riprese subito e dovetti sorridergli ancora. Era imbarazzante, ma l’alternativa era scoppiare a ridere, di una risata isterica, per nascondere la seria preoccupazione di trovarmi in una situazione assurda, così assurda come non mi era mai capitato prima.
Iniziò a dirmi che era possibile affrontare percorsi diversi, a seconda delle mie esigenze e mi chiese come mi ero immaginata quell’incontro e cosa mi aspettavo da lui.
Silenzio.
Mi sembra perplessa, mi disse, c’è qualcosa che non va?
No, mentii sfacciatamente. Andava tutto bene, finché non si fosse verificato l’irreparabile.
L’unica cosa che mi premeva era non dargli a vedere che mi ero accorta del suo problema. Per un attimo ebbi l’impressione che lui stesso non ne fosse consapevole, ma poi mi convinsi che non era possibile. Tutti ci guardiamo continuamente allo specchio, per non parlare delle possibilità che ci offrono per la strada le vetrine dei negozi e i finestrini delle auto parcheggiate. Io, per esempio, ero in grado di accorgermi se mi era spuntato un brufolo sul viso nel giro di mezz’ora. Per una zona più difficile, diciamo in mezzo alla schiena, potevano passare massimo ventiquattro ore. Ma anche per una persona distratta, mi pareva che quel problema fosse così grosso da non poter essere ignorato. Anche se capita che di fronte all’evidenza la gente faccia finta di niente, fino al paradosso che l’evidenza scompare.
Forse dovrei essere più naturale, pensai. Forse dovrei comportarmi come se fosse chiaro per entrambi che quel naso lì, in quella posizione precaria, non durerà a lungo. Potrebbe essere un sollievo, per lui, mettere finalmente le carte in tavola. Può darsi che stia aspettando la persona che gli dia finalmente la possibilità di ammettere che ha un problema. Ma io come faccio a dirgli, non si preoccupi per me, si tenga pure il naso mentre parla, non mi dà fastidio.
Il dottor P. mi guardava e sorrideva. Evidentemente aspettava una risposta.
Beh, di certo non me l’aspettavo così questo incontro, gli dissi.
Dal movimento delle sue sopracciglia compresi subito che mi stavo infilando in un vicolo cieco.
Provi ad andare avanti, mi incoraggiò.
Cosa c’è da aggiungere? Dovrei essere qui a parlare dei miei problemi e invece mi trovo davanti a uno a cui sta per cadere il naso, non so se mi spiego.
No, gli dissi invece, volevo solo dire che, ecco, il fatto di non sapere esattamente perché sono qui mi fa sentire un po’ a disagio. Il punto è che proprio non riuscivo a immaginarmelo in nessun modo questo incontro.
È una cosa normale, mi rassicurò lui.
Me l’ero cavata, ma il dottor P. sembrava deluso. Forse sentiva di aver perso un’occasione. Con tono dimesso mi raccontò di altri due ipotetici pazienti, che si erano rivolti a lui per motivi molto diversi e avevano scelto di seguire percorsi altrettanto diversi.
Il primo ipotetico paziente, chiamiamolo la signora A. perché è una donna, si era rivolto a lui perché aveva paura di volare. La signora A. stava vivendo una crisi familiare a causa di questa sua fobia, dato che l’ipotetico marito la accusava di minare la felicità coniugale obbligandolo ad andare in vacanza sempre negli stessi posti. La signora A. si era quindi recata da uno psicoterapeuta per superare la sua paura, ma il suo percorso terapeutico aveva preso una piega del tutto diversa. La morale era che nemmeno la signora A. all’inizio sapeva veramente perché aveva deciso di entrare in terapia. (Detto per inciso, la signora A. aveva finito per lasciare il marito, ma questo era poco importante.) Quanto al suo naso, era chiaro che la signora A. non aveva fatto niente per aiutare il dottor P.
Il secondo ipotetico paziente, chiamiamolo signor B. perché questa volta è un uomo, si era rivolto allo psicoterapeuta per un’ipotetica figlia, che a quanto pare frequentava delle pessime compagnie e gli dava immense preoccupazioni. Ma la figlia non si era mai fatta vedere e dopo qualche tempo il signor B. aveva capito che una terapia avrebbe giovato anche a lui. Quindi anche il signor B., come la signora A., a modo suo aveva iniziato senza avere le idee ben chiare. Ed era evidente che né l’uno né l’altro avevano fatto alcunché per alleviare le sofferenze del povero dottor P.
Era impressionante come riuscisse a mascherare la propria disperazione. Doveva essere tutta una questione di tecnica, pensai. Una tecnica imparata in lunghi anni di studio, per controllare le emozioni, per evitare che, in un caso come questo, un naso che sta per staccarsi dalla faccia e cadere con uno schiocco sonoro sul pavimento possa interferire con i problemi del paziente.
Si tradiva solo di tanto in tanto, quando con un gesto rapido si portava la mano al volto e, mentre con l’indice fingeva di aggiustarsi gli occhiali, con le altre dita controllava la situazione. Provai pena per quell’uomo. Forse toccava proprio a me fare qualcosa, ma non sapevo cosa.
A un certo punto smise di parlare e con la bocca aperta inspirò rumorosamente, come chi si prepara a starnutire. Prima di uscirsene in uno starnuto fragoroso, riuscì a portarsi davanti alla faccia un fazzoletto, che teneva nascosto ma a portata di mano.
Chiusi gli occhi e aspettai, temendo il peggio. Li riaprii solo quando fui sicura che non sarebbero seguiti altri starnuti. Lo feci con cautela, evitando di guardare il fazzoletto.
Mi scusi, mi disse soltanto. E ridacchiò.
Allora lo guardai. A parte gli occhiali un po’ scomposti, cosa alla quale rimediò subito, sembrava tutto a posto. Il naso era sempre lì. Vacillava, ma almeno aveva resistito all’urto.
Forse a causa della mia espressione preoccupata, si sentì in dovere di giustificarsi. Fuori faceva freddo, dentro c’era il riscaldamento, e con gli sbalzi di temperatura si rischiavano dei seri raffreddori.
Già. Per alcuni un raffreddore è una cosa da niente, ma per altri un raffreddore può essere una vera disgrazia, commentai.
Se colse l’allusione, non lo diede a vedere.
L’ho interrotta forse? Che cosa mi diceva?
No, veramente stava parlando lei, gli dissi.
Ah, sì, dicevamo delle varie possibilità di terapia, riprese lui. E comunque i primi incontri sono importanti proprio per questo, per capire che cosa vogliamo fare, intendiamoci, sono importanti sia per lei che per me. Anch’io devo farmi un’idea, non pensi che per me sia facile...
Guardai quel naso pendente, la pelle sempre più tesa nello sforzo di tenerlo al suo posto. Non lo pensavo davvero, ma la mia posizione si faceva sempre più imbarazzante.
Si fermò di nuovo e inspirò ancora, con violenza. Pensai che fosse la volta buona. Stava per succedere il pasticcio. Invece il dottor P. portò l’indice della mano sinistra sotto il naso e infine si rilassò. Da quella posizione buttò un occhio all’orologio. Il tempo a nostra disposizione era quasi scaduto.
Mi scusi, disse ancora. Se vuole possiamo già fissare un altro appuntamento. Oppure mi telefona lei.
Magari le telefono, vorrei pensarci ancora un po’, gli dissi mentre mi alzavo.
Si alzò anche lui e mi precedette nella sala d’aspetto. Non c’era nessuno in attesa. Pensai che forse ero la sua ultima speranza. Mi aprì la porta e mi porse la mano.
Allora la chiamo io, gli dissi.
Sì, disse lui. Non è corretto che chiami io. Aspetto una sua telefonata.
Mi sembrò quasi una richiesta d’aiuto. Gli strinsi la mano senza guardarlo negli occhi. Con vigliaccheria.
Arrivederci, mi implorò.
Arrivederci, gli risposi.
Ma sapevo già che non l’avrei chiamato. ■